Senza l’intervento della polizia Federico sarebbe ancora vivo. Senza la violenza perpetrata inutilmente sul suo corpo oggi avrebbe 25 anni e non si ricorderebbe il settimo anniversario della sua scomparsa. Sì, perché – secondo quanto riportano le motivazioni della sentenza 36280 della Corte di cassazione – i quattro poliziotti condannati in via definitiva per omicidio colposo hanno tenuto “condotte specificamente incaute e drammaticamente lesive”.
Come? “Monica Segatto lo colpiva alle gambe con il manganello, Enzo Pontani e Paolo Forlani lo tenevano schiacciato a terra, mentre Luca Pollastri lo continuava a percuotere”. Eppure Federico versava in “uno stato di agitazione tale da essere certamente riconoscibile da parte degli agenti”. Proprio per questo l’approccio da tenere sarebbe dovuto essere di tipo “medico-psichiatrico” e non “poliziesco repressivo”. E invece i poliziotti “sferrarono numerosi colpi contro l’Aldrovandi, non curanti delle invocazioni di aiuto provenienti dal giovane”. La serie di colpi “proseguì anche quando il ragazzo era stato fisicamente sopraffatto e, quindi, reso certamente inoffensivo”. E il soccorso dell’ambulanza venne chiamato “solo quando l’epilogo era ormai maturato”. Nel mentre non venne utilizzato nemmeno il defibrillatore in dotazione alla volante Alpha 3, per il quale “Pollastri aveva seguito apposito corso di formazione”.
Rispetto a quella che il giudice di primo grado definì “granitica difesa” dei quattro imputati, in Cassazione le loro posizioni si differenziano. In particolare Monica Segatto, tramite il suo avvocato, aveva fatto presente che durante l’immobilizzazione di Federico a terra “si era limitata a immobilizzare le gambe del ragazzo”, una condotta “priva di alcuna incidenza causale rispetto all’evento morte”. Non è così invece, visto che la Suprema Corte fa notare che la Segatto “lo colpiva alle gambe col manganello” e non si è affatto interrogata sull’azione dei colleghi, “se del caso agendo per regolarla, moderandola”.
La Corte censura poi il comportamento tenuto dai poliziotti dopo la morte di Federico e fino al dibattimento. In riferimento infatti alla dinamica del fatto riportata dagli agenti, “i primi atti di indagine, consegnati all’organo inquirente, erano volti a escludere ogni possibile elemento di colpevolezza a carico dei poliziotti”. Nel corso del processo, poi, gli imputati hanno “anche omesso di fornire un contributo di verità al processo da reputarsi doveroso per due pubblici ufficiali”. Un comportamento che ha indotto la Cassazione a negare le attenuanti, per aver “distorto dati rilevanti, per il seguente sviluppo delle indagini, sin dalle prime ore successive all’uccisione del ragazzo”.
Il primo commento che arriva all’uscita delle motivazioni è quello di Fabio Anselmo, l’avvocato che ha seguito la vicenda fin dalle prime fasi: “Questa è e sarà una sentenza storica che travolge quello che fino ad allora era un vero e proprio tabù: la possibilità di censurare e sanzionare un intervento di polizia violento e posto in essere al di fuori del diritto. Censura poi la cultura del lasciar che gli altri (colleghi) facciano, e riconosce la manipolazione delle indagini effettuate da altri funzionari della questura di Ferrara, nonché la distorsione da parte dei poliziotti imputati. Non perdona ai poliziotti pubblici ufficiali l’omissione del contributo di verità al processo. Questo è nient’altro che ciò da noi sostenuto e riconosciuto sin dal primo grado di giudizio, con buona pace di coloro che ci tacciavano di sciacallaggio e calunnia. La parola fine è scritta”.
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