FameLab 2024: fa tappa a Ferrara il talent show per giovani scienziati
Arriva per la prima volta a Ferrara FameLab, il talent show della comunicazione scientifica dedicato a giovani ricercatrici e ricercatori under 35
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di Federico Orlandini*
È noto che l’attuale governo non sia favorevole alla commercializzazione della cannabis sativa L. e i vari esponenti hanno pertanto accolto con favore la sentenza delle sezioni unite della Cassazione di alcuni giorni fa. Tuttavia siamo sicuri che la pronuncia della Suprema Corte abbia cambiato le carte in tavola? È davvero preclusa la vendita dei cosiddetti derivati della coltivazione di cannabis sativa L.?
Ma andiamo con ordine, precisando che si sa ancora poco della predetta sentenza; la sola certezza al momento è la preoccupazione sorta tra tutti gli esercenti degli shop che vendono i derivati della cd cannabis sativa L., nonché tra i relativi consumatori.
Così la Suprema Corte avrebbe sentenziato alcuni giorni fa: “La commercializzazione di cannabis sativa light e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016 che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa” finalizzata esclusivamente a fini medici.
Ciò significa che costituisce reato la vendita al pubblico dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis L. “salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.
In effetti, la legge 242/2016 permette la coltivazione di cannabis sativa L. contenente un principio attivo (THC) inferiore allo 0.6 (soglia stabilita al di sopra della quale si ritiene che la sostanza possa avere un effetto drogante). In realtà la legge prevede una soglia dello 0,2, tuttavia data la natura vegetale è stata introdotta una tolleranza. Sul punto è bene ricordare che le coltivazioni che superano lo 0,2 non possono godere di alcuni vantaggi concessi normalmente agli agricoltori.
A ciò si aggiunga che la circolare del 22 maggio 2018 “Chiarimenti sull’applicazione della l. 2 dicembre 2016”, “con specifico riguardo alle infiorescenze della canapa”, precisava “che queste, pur non essendo citate espressamente dalla legge n. 242/2016” erano lecite “nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo…, il cui contenuto di THC della coltivazione non superi i livelli stabiliti dalla normativa…”.
Ricordando ancora che al momento non si conosce per esteso la pronuncia delle sezioni unite né tantomeno il percorso logico motivazionale che precede, verrebbe dunque da dire che non c’è niente di nuovo all’orizzonte. La commercializzazione della cannabis sativa L., come previsto dalla L. 242/2016, non è consentita se non nella misura in cui rispetti i limiti di THC imposti dalla normativa.
Il problema casomai, sarà quello relativo all’eventuale sequestro della merce per la verifica sul contenuto di THC che di fatto, anche nel caso in cui i controlli fornissero un esito negativo, provocherebbero all’esercente un sicuro nocumento, dato dal tempo di sequestro della merce e soprattutto dalla incertezza sulla sua futura commercializzazione, dissuadendo altresì l’eventuale consumatore dall’acquisto. Tuttavia la Corte non pare aver cambiato le carte in tavola ma al contrario posto chiarezza in merito ad una normativa che invece sul punto (commercializzazione delle infiorescenze) pare tutt’altro che chiara e così in balia del vento che tira vuoi una volta da est, vuoi una volta da ovest.
*Avvocato del Foro di Ferrara
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