Cronaca
4 Novembre 2022
Costretti a lavorare fino a 16 ore con una pausa di 10 minuti. Botte e minacce per non parlare. Due arresti

Caporalato. Scoperto un esercito di sfruttati nell’Argentano

di Redazione | 5 min

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Argenta. Erano costretti a lavorare fino a 16 ore al giorno, 7 giorni su 7. In tutto quel tempo chini in mezzo ai campi potevano riposare al massimo 10 minuti, appena sufficienti per mangiare a pranzo e per bere. E questo per 5 o 6 euro l’ora nel migliore dei casi. Spesso in nero.

Chi si ribellava veniva picchiato anche a bastonate. Oppure gli si tratteneva lo stipendio. E la sera, finito il lavoro, dormivano in case fatiscenti o in capannoni dismessi e affollatissimi, tanto da dover condividere un bagno in 40 o 50.

È il quadro di sfruttamento che si sono trovati di fronte i Carabinieri questa mattina, giovedì 3 novembre, quando hanno eseguito due arresti dando così seguito a un’ordinanza cautelare chiesta dal pm Alberto Savino e concessa dal gip del tribunale di Ferrara.

A finire in carcere è stato A.Z., 57enne di nazionalità pachistana, conosciuto dalle sue vittime come il capo. Ai domiciliari invece è finito I.F., suo connazionale di 34 anni. Quest’ultimo, che aveva mansioni logistiche e contabili, veniva individuato come il segretario.

Secondo i riscontri della procura i due, accusati in concorso tra loro di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, aggravata dalla minaccia e dalla violenza (c.d. “Caporalato”), sono sospettati di essere i fornitori di manodopera (costituita anche da persone in condizioni di clandestinità e, spesso, impiegate senza contratto) sulla base delle richieste di vari imprenditori agricoli.

A fare il blitz in mattinata nell’Argentano, dove abitano i due arrestati, sono stati i carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile della Compagnia di Portomaggiore e quelli del Gruppo tutela lavoro di Venezia e Ferrara, insieme al Nucleo investigativo di Ferrara e da personale dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

I carabinieri hanno anche posto sequestro beni per equivalente del valore di circa 100.000 euro, vincolando sia le somme giacenti su conti correnti bancari, utilizzati da uno degli indagati e da 5 società a lui riconducibili per movimentare i proventi dell’attività illecita, sia un appartamento in precarie condizioni igienico-sanitarie, intestato alla moglie di uno dei due, a Portomaggiore, destinato ad ospitare i lavoratori.

Le indagini sono scaturite da una precedente attività investigativa, terminata nell’aprile 2022, che aveva portato all’arresto di altri tre cittadini pachistani, residenti nel Portuense, per fatti analoghi, che però appartenevano a un presunto sodalizio criminale concorrente.

Ai due arrestati viene contestato il reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla (perlopiù tramite la mediazione di società agli stessi riconducibili e appositamente costituite) al lavoro presso aziende agricole terze, “talvolta compiacenti”, sottolinea l’Arma.

E questo in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, adottando inoltre sistematiche condotte di violenza e minaccia nei confronti di numerosi di essi.

Secondo gli investigatori erano oltre 80 i lavoratori sfruttati, impiegati in più circostanze in diverse aziende agricole della zona e del ravennate.

Alla procura risulta che i due si intascavano circa metà del salario dei lavoratori, già sottopagati. Al lavoratore, a fronte di 10/14 ore di lavoro giornaliere, andava uno stipendio di 5 euro l’ora in luogo di una spettanza pari a circa il doppio, la cui differenza veniva incamerata dagli sfruttatori.

A loro viene contestata anche la reiterata violazione della normativa di settore (orario di lavoro, niente riposo settimanale, nessuna aspettativa né ferie, nessuna visite mediche, formazione sulla sicurezza, fornitura dei dispositivi individuali di sicurezza, etc.). I reclutati infatti lavoravano 7 giorni su 7, anche 16 ore al giorno con 10 minuti di pausa pranzo, senza possibilità di fare soste, neanche per bere.

A.Z. e I.F., inoltre, si sarebbero avvalsi di mezzi di intimidazione, quali le percosse (sia fuori che sui luoghi di lavoro), la minaccia ai lavoratori di non essere più chiamati a lavorare, il trattenimento dell’intero salario giornaliero dei lavoratori ritenuti indisciplinati, la minaccia di ogni forma di ritorsione o l’uso della violenza fisica nei confronti di coloro che paventavano l’intenzione di denunciare i fatti ai Carabinieri.

In più occasioni i lavoratori “meno efficienti” venivano sanzionati con pene corporali (schiaffi, bastonate) oppure gli veniva trattenuto parte del compenso dovuto. Le ribellioni più gravi – quali rivolgersi alle forze dell’ordine o solo paventarlo, oppure parlare direttamente col datore di lavoro (assolutamente vietato) – venivano punite con aggressioni fisiche percosse, lesioni e minacce.

Per garantirsi il pieno controllo sui connazionali, gli indagati mantenevano, in via esclusiva, i rapporti con gli imprenditori agricoli, presso cui i lavoratori venivano impiegati prevalentemente in nero.

Nei rari casi in cui venivano formalizzati i contratti di lavoro (con l’intermediazione delle società riconducibili agli indagati) e le spettanze quindi versate mediante bonifico, una parte della somma (pari a 5/6 euro per ogni ora di lavoro) veniva riconsegnata in contanti dalle vittime ai “caporali”. Quando, invece, il pagamento avveniva totalmente in nero, l’imprenditore da un lato effettuava direttamente il versamento al lavoratore, e dall’altro consegnava ai caporali la quota per la loro mediazione, la quale erodeva, anche in questo caso, quasi la metà del trattamento economico dei lavoratori.

Gli approfondimenti investigativi, articolati su mesi di osservazioni, pedinamenti, escussioni ed attività tecniche, hanno documentato come la condotta si sia protratta dal 2018, senza soluzione di continuità, sino ad oggi.

Il tutto era ben strutturato, a partire dai mezzi per il trasporto dei lavoratori nei campi fino alla cura di tutti gli aspetti tecnico-pratici del lavoro.

Gli stessi indagati provvedevano a dare vitto ed alloggio ai connazionali sfruttati, utilizzando abitazioni (una è stata sottoposta a sequestro preventivo) o capannoni industriali dismessi, in cui venivano stipate decine di persone in condizioni disumane (materassi a terra, 40/50 persone con un solo bagno etc.). Per questo alloggio si facevano pagare un canone di locazione variabile tra i 120 e i 150 euro al mese, oltre al vitto per il quale era richiesto un importo di 95/100 euro ciascuno, il cui importo complessivo veniva trattenuto direttamente dallo stipendio.

I caporali avevano anche ‘indottrinato’ i lavoratori sulla versione da fornire in occasione di eventuali verifiche da parte degli ispettori del lavoro. Inoltre erano state date precise disposizioni in caso di incidente sul luogo di lavoro: l’operaio doveva essere portato al Pronto Soccorso, dove non doveva riferire le reali modalità con cui si era ferito.

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