Du iu śpich frares?
24 Marzo 2020

Dalla Seconda Guerra Mondiale al coronavirus

di Maurizio Musacchi | 8 min

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All, radìs, còjar l’àtim

Carissimi amici del Dialetto Ferrarese (maiuscolo per...amore). In questo spazio vi presento una mia poesia che ha vinto un doppio premio nel prestigioso Concorso Letterario “Bruno Pasini” – XVIII ^ Edizione - 2023 – “ÀLL, RADÌŚ... CÓJAR L'ÀTIM”

Omaggio a Nerio Poletti

Carissimi amici del Dialetto Ferrarese. Si è spento serenamente, in questi giorni, Nerio Poletti, classe 1930. (Ho letto la notizia sui social dalla nipote Vanna). Vecchio amico mio, ma soprattutto del dialetto ferrarese. Lo avevo incrociato diverse volte a Bondeno...

In viaggio sulle mura con un ipotetico figlio

Maurizio Musacchi mette in versi un viaggio sulle mura di Ferrara, con un ipotetico giovane figlio. Vorrebbe parlargli di una guerra che ho vissuto, da piccolo. Parlargli di tragedie, magari fargli capire e vedere quanto orrenda sia.

Il bambino, il nonno e “Gote di fragola”

Carissimi amici del mio blog, col quale parlo, scrivo, presento autori di Ferrara , il suo Dialetto e il suo Territorio. Oggi, con la benevolenza della Dirigenza di Estense.com, vi propongo ancora un mio racconto

Il tempo dei fenicotteri rosa e…

Cari lettori, ho ricevuto un prestigioso riconoscimento al 3° premio del Concorso Nazionale Laghese di Poesia e Narrativa 2023. Vi pubblico qui il racconto sperando vi piaccia. --- Mi guarda assorto il vecchio, seduto su una panchina del Parco Massari di Ferrara....

Carissimi Amici. Fa pochi giorni avrò ottant’anni. Nacqui il 20 aprile 1940. (Giorno combaciante , non anno ovviamente, con quello di Massimo D’Alema, Adolf Hitler, Pietro Aretino, Joan Miró e tanti altri personaggi.) Vi presento questo mio racconto autobiografico. Devo dire che, rileggendolo prima di proporlo, mi sono un po’ emozionato. Mi è passata in un attimo l’immagine di una vita: iniziata nel mezzo di una tragedia e ora sommerso, come voi tutti, in un’altra terribile contingenza. Ho rivisto in un breve lasso di tempo, ciò che furono i tempi dell’arco della mia esistenza. Terribili quelli dell’infanzia. Vicissitudini estreme: la morte di una madre giovanissima, problemi personali d’un orfano, una piccola sorella, un padre troppo assente, diverse “madri”. L’alluvione del vicinissimo Polesine. Gente di Rovigo, più povera di noi, (incredibile), ospitata e stipata nel piccolo appartamento di Porta Po a Ferrara. Un’adolescenza fatta di lavori precari per aiutare a sostenere la famiglia. Una naja maledetta: un anno e mezzo della mia vita buttati. (E c’è ancora chi sostiene che il servizio militare è educativo e lo vorrebbe ripristinare: cavolate) ! Muoiono parenti e amici. Muore mio padre. Un terribile terremoto sconvolge vasti territori attorno Ferrara, che paga un alto tributo di danni, ma soprattutto, di vite umane. Infine, per chiudere l’arco della mia esistenza, la prova più misteriosa e terribile: Coronavirus, un tunnel maledetto, misterioso, del quale non ne vediamo la fine. Non tutta negativa la mia vita. Una moglie eccezionale per la pazienza con la quale mi ha sopportato. Due figli stupendi, bravissime nuore madri di tre nipoti meravigliosi. Ambirei tanto che quest’ultimi potessero passare con voi tutti, bene, questo orrendo “guado”, lo vorrei… lo vorrei tanto!

L’ODORE DEL TERRORE … (NEIN)
Di Maurizio Musacchi
Premiato nel Concorso “Con gli occhi di ieri e di oggi”
Pubblicato nel volume, edizione Maurizio Tosi : “ Multietnia delle parole” 2001

A Ferrara, nei primi giorni del 1945, si cominciava a respirare l’aria della fine del “Grande Inutile Massacro”! Mio padre pensò bene di lasciare il luogo ove eravamo sfollati, con la mamma e mia sorella: Aguscello, per cercare casa a Ferrara.
Trovò un appartamentino vuoto in Corso Porta Po, vicino alla chiesa parzialmente distrutta dai bombardamenti, di San Benedetto; malauguratamente non era il solo fabbricato danneggiato, altri nella città avevano subito le umilianti, tragiche, vane, ferite di guerra; purtroppo, pure gli esseri umani pagarono tributi drammaticamente in alcuni casi, inestinguibili per morti o ferite nel corpo e nell’anima, indelebili!
La nostra abitazione, situata a piano terra, (con relativi gravi problemi di umidità che solo chi ha abitato vecchie case ferraresi può capire: praticamente i muri specialmente nell’inverno quasi grondavano acqua;) consisteva di un paio di camere da letto: una tanto piccola, da apparire più sgabuzzino, nella quale dormii con mia sorella per alcuni anni durante il periodo della fanciullezza. Un’altra, un po’ più grande, per i miei genitori, ma poco utilizzata dalla mamma perché ben presto, una malattia infame se la portò ad intraprendere il viaggio, senza ritorno, verso la “Dimensione Sconosciuta”! Una così detta sala da pranzo, spesso utilizzata come terza camera dormitorio con aggiunta di qualche rete da letto, a disposizione dei vari ospiti, che si avvicendarono negli anni in casa nostra. Infine una cucina, naturalmente ancor più umida, perché situata nella parte nord dell’edificio; sul cortile perennemente in ombra, ed anche perché assorbiva i vapori lasciati dai cibi in cottura.
Il bagno, un bugigattolo con relativa vecchia sbrecciata “turca”, situato al di fuori dell’alloggio, serviva altre due famiglie, con annessi problemi e conflittualità imbarazzanti, permanenti!
Tutto ciò non deve trarre in inganno l’eventuale giovane lettore; tali situazioni abitative in quei
tempi, erano nella norma per la gran parte della popolazione proletaria ferrarese e già costituiva privilegio non dimorare in realtà ben più precarie, come ad esempio: le varie caserme o conventi abbandonati ove decine di famiglie si accalcavano in un groviglio residenziale ben più problematico!
Vorrei ricordare ad esempio, la Caserma Gorizia o il vecchio convento di Via Mortara, vere e proprie piccole Casbah, chi ha vissuto simili realtà ha conosciuto situazioni inimmaginabili ai giorni nostri; ma questa è altra storia!
Un giorno imprecisato del “quarantacinque “, mio padre mi caricò sul canotto della sua bicicletta da uomo e mi portò in visita a Ferrara dell’appartamento di cui aveva avuto le chiavi.
Io avevo quasi cinque anni e la gita in città, mi parve un piccolo viaggio in Paradiso. La guerra non era ancora finita, ma si vociferava che ormai i tedeschi fossero in rotta, quindi non v’era pericolo alcuno. Evidentemente ciò era ben radicato nella testa di mio padre poiché, mai avrebbe pensato di mettere a repentaglio la mia e la sua vita se non fosse arrivato a tal conclusione.
Non ricordo bene ciò che indossava, ma il maglione girocollo grigio chiaro sì, l’ho ben stampato nella mente, come altre immagini di quella giornata, indelebilmente rimaste in me. Sebbene fosse un modesto artigiano imbianchino, non s’abbigliava mai in modo trasandato. Era considerato un “bulo” o un “gago”, come si diceva in gergo dialettale, scopiazzando l’italiano bullo o il francesismo gagà. Aveva un paio di abiti doppio petto: uno marrone, e l’altro gessato chiaro.
Indossava sempre camicia e cravatta, quando usciva la sera per andare al bar ed era sbarbato e profumato, anche nei periodi più economicamente neri della sua vita. Aveva un anello d’oro con pietra nera quadrata che metteva sempre, anche sul lavoro. Scarpe sempre lucide, due paia uno nero e uno marrone.
Nell’attraversare la città, notavamo che v’erano ancora sporadici gruppetti di truppe tedesche, non badavano molto a noi a dire il vero, pensavano a caricare autocarri e a partire verso est, verso quel Po che avrebbe inghiottito tanti ragazzi biondi in cerca di salvezza, che come altri, precedentemente erano scomparsi nei suoi vortici!
Arrivammo al numero civico sessanta di Corso Porta Po; entrammo e visitammo la nostra futura casa. Mio padre, cominciò ad enumerare ad alta voce alcune migliorie necessarie per renderla abitativa, in quanto lo stato in cui versava esigeva lavori di sistemazione.
Poi, soddisfatto comunicò, con mia evidente gioia, che potevamo uscire a prenderci un caffè lui, ed un gelato io, per festeggiare il ritorno in città, in quello che doveva essere il luogo in cui trascorrere un probabile lungo, periodo della nostra vita negli anni futuri.
Non ci avvedemmo che fuori c’era qualcosa di cambiato in quei pochi minuti trascorsi nella visita dell’alloggio. Alla nostra destra c’era una pattuglia di tedeschi con una mitragliatrice piazzata in mezzo alla strada, mentre a sinistra del portone, in quello precedente, un paio di partigiani, parzialmente nascosti, puntavano fucili verso i militari tedeschi.
Mio padre s’accorse del fatto quando già era a metà della via: il crepitio della mitraglia germanica iniziava, mentre dall’altra parte, i partigiani sparavano con i loro moschetti.
Sentimmo fischiarci vicinissime le pallottole, mio padre urlò qualcosa e rannicchiandosi mi trascinò fra le rovine di una casa bombardata situata dirimpetto alla nostra futura abitazione. Incespicammo,
arrancammo fra i mattoni e le macerie sparse, ci accucciammo in una camera parzialmente integra.
Fuori si udirono altre raffiche, urla, ordini, tramestio di passi come se qualcuno corresse; poi, più niente, solo qualche parola urlata in tedesco.
Il tempo passava, mio padre mi stava sopra come a proteggermi, per zittire le mie ovvie domande e gli ancora più naturali singhiozzi di terrore.
Sentivo il suo ansare, vedevo il sudore che scendeva dal viso, ma un evento, singolarmente mi colpì in quel miscuglio di impulsi di curiosità, mista a sentimenti di terrore, una starna sensazione, una cosa che non aveva mai avvertito in lui e che mai più ebbi occasione di sentire. L’odore! Un odore forte di sudore, come quello che emanavano i braccianti dei campi quando, alla fine di una giornata di duro lavoro, si avvicinavano al canale ove eravamo sfollati per lavarsi per una sommaria pulizia corporale.
Sicuramente quello che avvertivo in mio padre, era l’odore del terrore, un terribile effluvio di chi, avvicinato dalla morte e non ha modo di come respingerla o come difendersi!
Ad un tratto, un tramestio s’avvicinò al luogo ove eravamo rannicchiati, sentimmo urlare frasi in tedesco, il calpestio degli scarponi si avvicinò sempre più, una figura che a me sembrò enorme, si stagliò all’ingresso di quella camera diroccata, mio padre farfugliò qualcosa indicandomi: il tedesco ammiccò e sorrise per tranquillizzarci ed ad un urlo che veniva da fuori, esclamò una piccola parola che probabilmente fu la nostra salvezza:
Nein!- Sorrise e scomparve, sentimmo i passi allontanarsi, altri ordini urlati, poi più nulla!
Passarono molti minuti, forse un’ora, prima che mio padre si decidesse ad uscire, poi si alzò, prese la mia mano, poi con circospezione, ci allontanammo; fuori non c’era più nessuno, qualche passante frettoloso e nessun altro, non militari, ma neppure partigiani.
Nel muro della casa, che fa angolo dirimpetto alle macerie del nostro pomeriggio di terrore, in quella che allora si chiamava Via Soncina ed ora è Benvenuto Tisi, vi erano i buchi di proiettili ad altezza d’uomo, che solo per caso non colpirono due persone, padre e figlio, che si trovarono nel bel mezzo di una guerra, salvi per volontà di qualche Santo e forse di un certo militare tedesco, chissà?
Ora le macerie sono sostituite da un grande palazzo, in corrispondenza del luogo quell’interminabile periodo di terrore, c’è la cucina di un ristorante cinese.
A volte, passeggiando nei luoghi della mia infanzia, il Corso Porta Po super inquinato d’oggigiorno, mi capita di soffermarmi davanti a quel muro di Via Soncina, ovvero la Benvenuto Tisi d’oggi, mi sembra di notare nelle pieghe del vecchio intonaco, come piccoli aloni circolari, ricordi di certi proiettili: chissà, forse è solo un’immagine irreale?
Di reale c’è vivido un doppio ricordo: l’odore del padre, l’odore di quel terrore e…un urlo liberatorio uscito dalla bocca di un giovane soldato:
-Nein!- No qui non c’è nessuno, un nessuno che può, raccontare questa storia forse solo grazie ad un monosillabo tedesco: un piccolo apparentemente insignificante …NEIN!

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