Cronaca
7 Giugno 2011
Secondo gli avvocati legittimo l’intervento e fedele la ricostruzione degli agenti

Aldrovandi, le difese chiedono l’assoluzione

di Marco Zavagli | 3 min

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Assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. È quanto chiedono alla Corte d’Appello le difese dei quattro agenti condannati in primo grado per omicidio colposo per la morte di Federico Aldrovandi. La prima arringa tocca all’avvocato Eugenio Pini, che difende Monica Segatto per conto dell’associazione Prima Difesa.

Pini punta sugli aspetti medico-legali, “in base ai quali il tessuto cardiaco mostra che una agitazione psicomotoria nel ragazzo c’era ed era indotta dalla propensione all’uso delle droghe”. Circostanza che secondo il difensore sarebbe confermata dalle testimonianze degli amici che passarono con lui l’ultima notte. In particolare Pini prende come riferimento l’esame di uno dei migliori amici di Federico, Andrea Boldrini, “credibile solo quando dice che era ‘fatto’ e non invece quando lo descrive come ‘stanco’ durante il tragitto di ritorno dal Link (la discoteca di Bologna dove Federico aveva passato la serata, ndr)”. Pini considera anche l’ematoma esaminato dal professor Thiene, che lo ritiene la causa del decesso in quanto avrebbe interrotto in modo violento, meccanico, il fascio di His, la “centralina elettrica” del cuore. “Quel piccolo punto non poteva causare un arresto cardiaco – sostiene – e la valutazione di una possibile compressione toracica non è provata”.

L’avvocato Giovanni Trombini ricostruisce invece gli orari di arrivo delle volanti in via Ippodromo e quello delle chiamate tra carabinieri, polizia e 118: “le prove e i fatti raccontano una storia diversa rispetto a quello che ci ha detto il procuratore generale”. A cominciare dalla considerazione di “quattro adulti contro un minorenne: le percezioni di quella notte sono confermate dal primo referto medico-legale che, esaminando il corpo dell’Aldrovandi, parla di un uomo sui 30-35 anni”. Trombini tocca poi il tasto delle droghe. “Il fatto che, come sostenuto dagli amici – ipotizza il penalista -, la vittima fosse un consumatore consapevole di stupefacenti, mal si sposa con l’acquisto di droga per strada, in una discoteca. La sperimentazione si fa al’interno di una struttura, sotto il controllo di specialisti. Altrove invece può portare a fenomeni allucinatori dal momento che non si conosce ciò che si ingerisce”.

Quanto all’azione di contenimento operata dagli agenti, poi, tale operazione “avrebbe rispecchiato le procedure descritte nei manuali di polizia.

L’ultima a parlare è Michela Vecchi. L’avvocato attacca la sentenza di primo grado, che non farebbe giustizia di quanto emerso in primo grado, sposando in toto la tesi di Thiene: “se così fosse significherebbe che i consulenti del primo pm (Lumare e Malaguti, che eseguirono l’autopsia, ndr) hanno mentito”. Non solo. Il giudice di primo grado secondo Vecchi avrebbe travisato i dati di fatto emersi in dibattimento, “scegliendo solo i punti che facevano comodo alla sua ricostruzione”. Ad esempio il fatto che “tutte le ferite rinvenute sono compatibili con la ricostruzione degli imputati”. La stessa causa del decesso, inoltre, non sarebbe stata stabilita in modo definitivo, visto che “dal confronto tra esperti esperito in appello emerge che l’excited delirium syndrome rimane un’ipotesi plausibile”. Quanto infine ai mancati soccorsi, “non è vero – sostiene l’avvocato difensore – che l’ambulanza venne chiamata tardivamente: si registrano tre richieste di intervento in rapida successione”. Michela Vecchi avanza dubbi anche sulla bontà della testimonianza oculare di Anne Marie Tsegue, dal momento che “dalla finestra del balcone, in mezzo agli alberi, poteva vedere solo una parte della scena”. E le era nascosto invece “metà del copro di Aldrovandi, coperto dall’auto rispetto al suo angolo di visuale”.

La discussione terminerà venerdì 10 giugno, con l’arringa dell’avvocato Gabriele Bordoni. Dopo le eventuali repliche di parte la corte si ritirerà per pronunciare la sentenza.

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