Cronaca
26 Febbraio 2025
Una donna di 34 anni ha denunciato per maltrattamenti il marito, i suoceri e i due cognati che l'avevano ridotta come una schiava

Trattata peggio di un animale. Si ribella al clan

di Davide Soattin | 4 min

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L’avrebbero trattata come una schiava, facendola dormire in uno sgabuzzino senza porta e obbligandola – se, a loro dire, sbagliava qualcosa – a chiedere scusa in ginocchio, al punto tale che lei, stanca di quei continui soprusi, avrebbe anche tentato – fortunatamente senza riuscirci – di togliersi la vita, ingerendo una quantità importante di farmaci che aveva trovato in casa.

È l’inferno a cui per circa tredici anni sarebbe stata costretta a vivere una donna 34enne di nazionalità pakistana per mano del marito 38enne (oggi irreperibile), del suocero 76enne, della suocera 63enne (oggi irreperibile) e dei cognati di 34 e 35 anni, tutti connazionali per cui la Procura di Ferrara ha chiesto il rinvio a giudizio con la pesante accusa di maltrattamenti in famiglia.

I fatti, secondo l’accusa, avrebbero avuto inizio nel 2009 con un matrimonio combinato in Pakistan e sarebbero proseguiti poi anche col trasferimento della famiglia in Italia, a Portomaggiore.

Sin dagli inizi della convivenza infatti, quando ancora i due abitavano in Pakistan, la donna sarebbe stata costretta a subire pesanti maltrattamenti. I parenti del marito l’avrebbero trattata alla stregua di una serva, obbligandola a svolgere le faccende domestiche per tutti i membri della famiglia e impedendole di frequentare i propri genitori.

La situazione non sarebbe cambiata – nonostante le speranze di una nuova vita – nemmeno col trasferimento in Italia, a Portomaggiore, dove la famiglia di lui avrebbe continuato a imporle la propria ‘legge’, non solo insultandola e minacciandola, ma anche obbligandola a obbedire agli ordini di tutti senza darle la possibilità di dissentire.

Tra le angherie a cui la donna sarebbe stata costretta, le sarebbe addirittura stato vietato di comprare gli assorbenti e imposto di usare un bagno esterno alla casa. Poi, come se non bastasse, i familiari si sarebbero accaniti su di lei anche quando era incinta, quando avrebbero comunque continuato a farle fare le pulizie domestiche, anche le più odiose, come raccogliere il vomito del marito o dei cognati ubriachi.

Trattamenti che, nemmeno nelle peggiori e più assurde fantasie, qualcuno riserverebbe a un animale.

A distanza di tre mesi dalla nascita della figlia, nel 2012, la donna sarebbe stata inoltre costretta – senza consenso – a una seconda gravidanza perché il marito voleva a tutti i costi un figlio maschio, nonostante le raccomandazioni del medico ginecologo che le aveva consigliato di attendere altri due anni prima di un’altra gestazione.

Alla 34enne sarebbe stato anche impedito di andare dal medico, di possedere un telefono cellulare, di tenere con sé i propri documenti oppure di far rientro in Pakistan, nemmeno quando il padre – nel 2016 – morì dopo l’aggravamento di una malattia. I cinque le avrebbero inoltre vietato di imparare la lingua italiana, spaccando piatti e bicchieri quando quello che cucinava non era di loro gradimento. A volte sarebbe anche stata presa a schiaffi, altre sarebbe stata minacciata, offesa e umiliata.

A farne le spese – a volte con le stesse modalità riservate alla madre – sarebbe stata anche la figlia della donna, che il primo giorno di scuola sarebbe stata mandata a lezione senza avere il materiale necessario e con indosso il velo, come imposto dai nonni paterni, nonostante il parere contrario della madre, che fu puntualmente ignorato.

La donna avrebbe dovuto anche ‘sopportare’ una relazione extra-coniugale del marito che dopo l’uscita dal carcere, dove era finito nel 2013 per detenzione di sostanze stupefacenti, si era trasferito in Spagna, iniziando un rapporto stabile con un’altra donna e tornando sporadicamente in Italia. Nonostante ciò, anche a chilometri di distanza, avrebbe comunque esercitato il proprio controllo sulla vita della moglie.

Un controllo che quotidianamente esercitavano tutti gli attuali imputati quando, a turno, quelle poche volte che la donna otteneva il permesso per telefonare, la sorvegliavano per ascoltare i contenuti dei discorsi.

Durante i tredici anni di vita coniugale, la presunta vittima avrebbe potuto fare rientro in Pakistan solamente quattro volte, l’ultima nel giugno 2022, quando scoprì che la famiglia del marito aveva progettato di non farla rientrare in Italia, affinché lui potesse sposarsi con l’amante. Anche la figlia avrebbe dovuto restare in Pakistan perché, secondo i piani, avrebbe dovuto contrarre un matrimonio combinato col cugino e, poiché femmina di 11 anni, già all’epoca doveva essere avviata alla vita da casalinga.

Discorso diverso, invece, per il figlio maschio che i parenti paterni avrebbero voluto nuovamente in Italia, in modo tale da interrompere ogni rapporto tra lui e la madre.

La donna però non si lasciò prendere dal panico e decise di rientrare in Italia con i figli. Prima di farlo però, mentre ancora era in Pakistan, decise di contattare via mail il Centro Donna Giustizia di Ferrara che, una volta rientrata, la prese in carico, mettendola in una struttura protetta. Dopodiché, assistita dall’avvocato Sara Bruno, agli inizi di gennaio 2023 decise di sporgere denuncia, facendo partire le indagini che hanno portato all’attuale procedimento.

L’udienza preliminare del processo è programmata per la giornata del 18 marzo davanti al gup Andrea Migliorelli.

 

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