L'inverno del nostro scontento
3 Giugno 2024

Cosa risponderebbe Hannah Arendt all’accusa contro Israele di crimini contro l’umanità?

di Girolamo De Michele | 6 min

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In un editoriale pubblicato su Haaretz (il terzo quotidiano israeliano) lo scorso 29 maggio [qui], Robert Zaretsky* si chiede se Arendt, che sfuggì ai nazisti e seguì il processo Eichmann, avrebbe sostenuto i potenziali mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale contro i leader d’Israele e di Hamas, dal momento che credeva fermamente in un tribunale penale internazionale come protezione contro il genocidio. Zaretsky pensa che Arendt, “anche se avrebbe trovato poche ragioni per sperare, rifiuterebbe tuttavia di rassegnarsi alla disperazione”: in La condizione umana, infatti, la pensatrice scrive che

La durata della vita dell’uomo che corre verso la morte porterebbe inevitabilmente tutto alla rovina e alla distruzione, se non fosse per la facoltà di interromperla e di iniziare qualcosa di nuovo: una facoltà che è inerente all’azione per ricordare sempre che gli uomini, anche se devono morire, non nascono per morire ma per iniziare.

Secondo Zaretzsky, una tale interruzione si è verificata con la richiesta da parte del procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Khan di un mandato di arresto contro i leader sia di Hamas che di Israele: “esistono fondate ragioni”, ha dichiarato Khan, “per sostenere che non solo Yahya Sinwar, Muhammad Deif, Ismail Haniyeh, ma anche Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.
D’altronde, ha aggiunto Khan, “se non dimostriamo la nostra volontà di applicare la legge allo stesso modo, se si avesse l’impressione che la legge sia applicata in modo selettivo, creeremmo le condizioni per il suo crollo”.

Zaretsky ritiene che “l’indignazione scatenata dalla decisione di Khan” sia comparabile alla “tempesta di polemiche che seguì la pubblicazione, nel 1963, di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme di Hannah di Arendt”. Adolf Eichmann, ricordo, era l’ufficiale delle SS responsabile del campo di Auschwitz, ed ebbe un suo ruolo fondamentale nello sviluppo della Soluzione Finale.
Il concetto di “banalità” (accanto a quello di “complicità” riferito ai collaborazionisti ebrei dello Judenräte), che pure compare una sola volta nel libro, sottolinea “la sconsideratezza di Eichmann – la sua assoluta incapacità di vedere il mondo dalla prospettiva di un altro. Era questa qualità insignificante che gli permetteva di commettere i suoi crimini indicibili”.
Ma ancor più rilevante, per Zaretsky, è oggi un terzo concetto introdotto da Arendt: la “pluralità”. Nella parte finale del libro sul processo Eichman Arendt afferma che

È nella volontà del regime nazista di “far sparire tutto il popolo ebraico dalla faccia della terra che il nuovo crimine, il crimine contro l’umanità – nel senso di un crimine ‘contro lo status umano,’ o contro la natura stessa dell’umanità – è apparso”. Questo crimine è diverso da altri crimini, insiste, perché è “un attacco alla diversità umana in quanto tale […] senza la quale le stesse parole ‘genere umano [mankind]’ o ‘umanità [humanity]’ sarebbero prive di significato.

In seguito Arendt sostituirà la “pluralità” con la “diversità”, ma senza mutare idea: “diversità” nel lessico arendtiano significa esattamente il contrario di ciò che oggi intendiamo con tale parole – l’identificazione con uno specifico gruppo etnico, linguistico o religioso. Come sottolinea Zaretsky

con “diversità” Arendt designa “le profonde e vitali differenze che esistono non solo tra i gruppi, ma tra ognuno di noi. La pluralità umana implica che siamo tutti pienamente uguali e completamente unici”. È per questo che “nessuno, cioè nessun membro della razza umana può condividere la terra con coloro che cercano di sradicare la nostra umanità condivisa e plurale”.

Arendt sostenne, in un carteggio suo mentore e amico Karl Jaspers, che il male radicale incarnato dalla Germania nazista, “rendendo gli esseri umani superflui”, richiedeva la creazione di una nuova categoria giuridica: i “crimini contro l’umanità”, termine per Arendt intercambiabile con “genocidio”. L’organo competente per tali casi doveva essere per lei un tribunale penale internazionale con poteri appropriati. Zaretsky ricorda che nell’epilogo di La banalità del male, Arendt avverte che se ancora altri crimini contro l’umanità sono “una reale possibilità del futuro, […] allora nessun popolo sulla terra – meno di tutti, naturalmente, il popolo ebraico, in Israele o altrove – può sentirsi ragionevolmente sicuro della sua esistenza senza l’aiuto e la protezione del diritto internazionale”.
Questo passaggio, secondo Zaretsky, “dovrebbe ricordare al mondo che la risposta iniziale di Israele al massacro di Hamas non era solo comprensibile, ma anche del tutto giustificabile”. Nondimeno, lo stesso Zaretsky ricorda che “Arendt era giustamente preoccupata per il posto dei palestinesi nel pensiero sionista del dopoguerra”: non per caso, aggiungo io, Arendt firmò il 4 dicembre 1948, assieme ad Albert Eistein ed altri esponenti di rilievo della diaspora ebraica negli Stati Uniti, una lettera al New York Times contro la visita negli USA dell’allora giovane leader dell’estrema destra Menachen Begin, futuro fondatore del Likud e mentore politico dell’attuale leader israeliano Netanyahu, definendolo “terrorista” e uno dei “Fascist elements in Israel”.

La stessa accusa di fascismo verso Begin rivolse Primo Levi in un’intervista del 1982: “Per Begin ‘fascista’ è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe” [“Io, Primo Levi, chiedo le dimissioni di Begin”, intervista con Gianpaolo Pansa, La Repubblica, 24 settembre 1982, ora in Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti, p. 301].

Torniamo ad Arendt: che, secondo Zaretsky, “si affretterebbe ad aggiungere che ci sono altri elementi altrettanto cupi da tenere a mente”. Probabilmente sosterrebbe le accuse portate dal procuratore della Corte Penale Internazionale, sulla base di prove che vanno oltre un ragionevole dubbio: se “Israele ha il diritto di difendersi, ha mancato nel suo dovere di rispettare il diritto internazionale. Ciò comprende non solo il suo sproporzionato livello di uccisioni e distruzione, che includerebbe l’attacco missilistico di questa settimana su un campo profughi a Rafah, e l’uso deliberato della fame della popolazione civile”.
Le critiche da ambo le parti di equiparazione rivolte alla Corte Penale Internazionale indicano così “un terreno comune nel deridere queste accuse perché riflettono un’equivalenza morale tra Hamas e le azioni di Israele”.
Soprattutto,

Arendt risponderebbe che il più vitale dei motivi comuni risiede invece nella “paradossale pluralità di esseri unici”: proprio come Hamas ha posto fine alla vita di 1.200 esseri unici il 7 ottobre, Israele ha posto fine alle vite di decine di migliaia di esseri unici, molti dei quali civili, nei mesi successivi. L’equivalenza assoluta di tutte queste vite uniche, Arendt insisterebbe, è l’unica equivalenza che conta.

* Robert Zaretsky è uno storico delle idee, docente all’Honors College dell’Univeristà di Houston, ed editorialista del Jewish Daily Forward. Ha scritto su Albert Camus, Simone Weil e l’Illuminismo britannico; nel suo ultimo libro, Victories Never Last: Reading and Caregiving in Time of Plague (University of Chicago Press, 2022), analizza alcuni grandi classici sulla peste – Tucidide, Marco Aurelio, Montaigne – che possono esserci d’aiuto nella crisi pandemica.

Altri testi su Gaza, Israele e il genocidio palestinese pubblicati su questo blog:

Luca Casarini: Il sole, la pioggia e la Corte Penale Internazionale

Franco Berardi Bifo: La fine di Israele

Lee Mordechai: Sei mesi di crimini di guerra a Gaza

Yanis Varoufakis: Un genocidio lava l’altro?

Raffaele Oriani: Siamo la scorta mediatica dei massacri

Girolamo De Michele: Non possiamo accettare di essere la scorta mediatica di un genocidio in atto

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