Attualità
7 Maggio 2024
L'intervento di Giuseppe Scandurra: "Trovo legittimo che si chieda al proprio ateneo di rendere pubbliche tutte le collaborazioni accademiche"

Sul boicottaggio “accademico” a Israele. Qualche dubbio per continuare a parlare

(Foto di Archivio)
di Redazione | 10 min

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di Giuseppe Scandurra*

Lavoro per un’università che certo non ha il peso della Columbia University. Sono un antropologo culturale che non ha mai fatto ricerca in contesti attraversati da contesti bellici. In un dibattito che vede per lo più coinvolti docenti e studenti di “grandi” università e, più in generale, studiosi che parlano in quanto “esperti”, spero possa essere utile offrire un piccolo contributo riflessivo frutto di uno sguardo “periferico” e “ingenuo”. 

Quando il Rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, afferma: “Le università non si possono ridurre né ai governi dei loro Paesi, né ai loro stessi governi accademici”, non posso non essere d’accordo. Io stesso, d’altronde, come strutturato in Accademia da più di dieci anni, sono fortemente critico con l’attuale governo del mio Paese e con quello che determina le politiche universitarie italiane; ciò, però, non mi ha mai spinto a pensare di licenziarmi per fare un altro lavoro – un lavoro in cui credere sempre più proprio nel momento in cui ritengo che molto debba essere rovesciato. 

Se una collega mi chiedesse perché tanta passione quando a venire meno è la fiducia nell’attuale governo accademico e politico, la mia risposta troverebbe conforto, ancora una volta, nelle parole espresse da Montanari: “Tutte le componenti delle università sono tenute a salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia della comunità accademica dal potere politico, giudiziario, religioso e militare”. Quando mi è capitato di leggere – anche su quotidiani nazionali – di rettori di università israeliane che si sono rifiutati di sottostare a una direttiva che chiedeva loro di denunciare ogni complicità intellettuale con Hamas, ho pensato in primis proprio al mio sguardo critico, e a quanto proprio questo mi spinga a esercitare la mia professione con sempre più passione. Fino a quando ci sarà, infatti, la speranza di costruire argomenti comuni per ribellarci, l’ultima cosa che mi sentirei di fare è rompere la relazione con colleghi e colleghe che lottano, come me, per cambiare l’attuale stato delle cose.

Tale pensiero, come detto periferico, rimane però astratto e potrebbe essere attaccato poiché privo di dati di contesto; provo, di conseguenza, a entrare più nell’oggetto del contendere. Quando ho letto articoli di colleghi che, con discutibile paternalismo, consigliano ai “ragazzi”, come fa Salvatore Settis, di attaccare “i governi” e non la “scienza”, ammetto di non capire, poiché non riesco – a fronte della mia ingenuità – a separare chirurgicamente le due cose. Quando, per esempio, giornalisti come Massimo Giannini rivendicano il ruolo “libero” e “apolide” dei nostri atenei, chiudo gli occhi e non riesco a vedere nulla: a cosa fa riferimento Giannini quando usa parole come “interscambio universitario” e “progresso scientifico” se non a un’astrazione che non aggiunge nulla al dibattito da un punto di vista analitico? Le indagini che conduco, gli articoli che scrivo, i rapporti di ricerca che coltivo con colleghi fuori dalla mia università hanno sempre a che fare con questioni di potere che rimandano a determinate politiche governative. Io non mi sento, come intellettuale, apolide, né vorrei esserlo. All’opposto, è proprio in nome di un pensiero situato e sempre condizionato dalla politica che trova giustificazione il mio scetticismo nel firmare un appello che interrompa ogni rapporto con gli atenei israeliani. Non è un astratto vestito “libero” e “apolide” che dovrei indossare in nome del “progresso scientifico” che motiva la mia titubanza, ma semmai la speranza, frutto di una lotta comune e transnazionale, che tutto sia ancora ribaltabile.

C’è un’altra chiave di lettura utilizzata da chi critica negativamente ciò che viene chiamato “boicottaggio”: una chiave di lettura che trovo infantile e quanto mai scorretta. Se usciamo dalla nostra acqua, dalle manifestazioni più che legittime e comprensibili di tanti studenti e docenti nelle principali università italiane che si sono registrate nelle ultime settimane, se guardiamo agli Stati Uniti con gli occhi, i miei, di un accademico distante un oceano da Columbia, ammetto che mi si scalda il cuore. A breve i cittadini nordamericani dovranno affrontare una delle elezioni più drammatiche della loro giovane storia, e mai ho avuto la sensazione di assistere, giorno dopo giorno, al declino di un impero. Federico Rampini ha recentemente scritto che oggi l’epicentro della contestazione “si trova in atenei da settantamila dollari di retta annua. Fra gli studenti fermati dalla polizia, e subito rilasciati, si distinguono figli di celebrity, rampolli di politici e banchieri. Le star di Hollywood portano solidarietà agli studenti. Chi indossa la divisa invece non ha studiato a Harvard…”. Ecco, questo tirare fuori le parole “sessantottine” di Pier Paolo Pasolini, non solo è scorretto e infantile, ma oltremodo noioso. Visto che l’oggetto del contendere è analiticamente difficile da risolvere, queste chiavi di lettura vecchie e fuori contesto aiutano solo a fare caciara ideologica.

Come stare dalla parte che io ritengo giusta, situato come sono nel mio studio piccolo e periferico, consapevole dei tanti libri che dovrei leggere prima di dire qualcosa di realmente utile? Per fortuna ho colleghi e colleghe che si sono espressi forti delle loro competenze; se compito di un ricercatore non è quello di costruire mondi ma, all’opposto, di far salire di un gradino la scala di conoscenza che abbiamo di un tema, l’unica cosa di intelligente che posso fare è partire dalle loro parole e aggrapparmi ad esse con spirito critico per offrire, per l’appunto, uno sguardo obliquo. 

Alcune colleghe e colleghi hanno recentemente sottoscritto un dossier da titolo “Antropologia, diritto internazionale e dibattito pubblico sul ‘possibile’ genocidio in Palestina”. L’obiettivo esplicito del documento è quello di sollecitare ricercatori e ricercatrici a richiedere alle proprie istituzioni accademiche di riferimento di sospendere ogni relazione con i centri di ricerca e le università israeliane, in ottemperanza alle misure cautelari in vigore a partire dal pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia riguardante la violazione dell’art. 2 della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio imputata allo Stato di Israele. Tale sollecito, dunque, servirebbe a isolare Israele nel momento in cui venga ritenuta responsabile di atti genocidari in Palestina, aspettando la sentenza definitiva; altrimenti, si legge nel documento, saremmo complici, anche sul piano penale, di aver collaborato con uno Stato sul banco degli imputati per la violazione più grave delle convenzioni e dei trattati internazionali. Il “boicottaggio”, dunque, va letto come un più che dovuto atto che riguarda la giustizia internazionale e comporterebbe, almeno per quanto concerne i nostri atenei, il rifiuto di finanziamenti e la partecipazione in progetti di ricerca e sviluppo che abbiano come partner istituzioni scientifiche israeliane. 

Questo passaggio dall’impegno politico a un imperativo giuridico mi convince, però, fino a un certo punto. Come detto, trovo eccezionale, nel senso letterale della parola, il fatto, in un momento così depresso e infelice politicamente, che vi siano state molteplici reazioni della “comunità accademica” all’aggressione israeliana. Fin dai primi mesi successivi all’inizio dell’attacco israeliano a Gaza e all’aumento delle incursioni dei coloni in Cisgiordania abbiamo infatti assistito a una risposta oceanica in termini di comunicati, dichiarazioni e lettere aperte scritte da coraggiose e coraggiosi colleghi. Che un problema ci sia è evidente, però: nonostante tante manifestazioni di protesta, almeno che io sappia, pochissime, se non nessuna delle università “protestanti”, ha proceduto a interrompere ogni collaborazione con Israele. Se da una parte ciò è spiegabile in virtù di un dibattito ancora aperto, e delle titubanze – a mio avviso legittime intellettualmente – di appartenenti a questi atenei che, pur condividendo le “proteste” non ritengono questa la strategia politica migliore, è evidente che vi sia qualcos’altro. Moltissime università, anche nel nostro Paese, infatti, sono legate all’industria militare attraverso progetti e finanziamenti mediante la formula del “duplice uso” delle tecnologie. Tale “formula” lascia grandi margini di lavoro per la ricerca in ambito militare. Il fatto che molti dipartimenti dipendano in grande misura da questi finanziamenti non consente, di conseguenza, che voci contrarie alla guerra siano prese in considerazione dalle strutture accademiche. Il caso più emblematico al riguardo è quello menzionato dal documento degli antropologi sopra citato. Presso l’Università di Oxford, duemila studenti e professori hanno scritto una lettera di solidarietà alla Palestina e quaranta filosofi hanno condannato la politica israeliana. L’Università, però, ricorda il documento “ha ricevuto 17 milioni di sterline dalle aziende che producono armi per l’esercito israeliano; Lockheed Martin e altre aziende di armamenti hanno donato oltre 100 milioni alle università del Regno Unito, come ha mostrato un rapporto di Disarm Oxford”.

Se da una parte questo dimostra come tale “impegno politico” non sia sufficiente, a fronte di un problema strutturale da cui dipende la sopravvivenza di molti grandi atenei, e come, di conseguenza, la richiesta di passare da una protesta “politica” a un “imperativo giuridico” sia forse un passaggio obbligato, dall’altra parte è ancora più preoccupante quello che sta succedendo in alcune università ove le proteste sono state più eclatanti. Il fatto che, come scrive Giannini, le università sono “libere” e “apolidi”, e per questo devono favorire l’“interscambio culturale” e il “progresso scientifico”, è infatti smentito non da proteste politiche legittime contro il governo di Israele che nulla hanno a che fare con ciò che viene chiamato antisemitismo, ma dal trattamento che stanno subendo individui e collettivi solidali col popolo palestinese. Il documento sottoscritto dagli antropologi, in questa direzione, ricorda le dimissioni delle rettrici di due delle più importanti università nordamericane, Claudine Gay di Harvard e Liz Magill dell’Università della Pennsylvania, per non aver impedito le manifestazioni di solidarietà alla Palestina; e ancora, “il più recente, […] è il licenziamento dell’antropologo Ghassan Hage dal Max Plack Institute di Berlino”.

Sono un antropologo, ricordavo all’inizio di questo articolo, e per questo trovo infantile e quanto mai fuori luogo un’altra argomentazione contro la richiesta di interrompere ogni relazione con le università israeliane, ovvero quella per cui, come ho letto anche da diversi rappresentanti della maggioranza del nostro governo, il conflitto israelo-palestinese non ha nulla a che fare con la “libera ricerca”. Per quanto ritengo che l’epistemologia di una disciplina scientifica non debba derivare dal suo grado di “impegno politico”, è ovvio che non farei bene il mio lavoro di ricercatore se non pensassi che l’antropologia come professione ha senso proprio perché si impegna a promuovere e proteggere il diritto delle persone e dei popoli di tutto il mondo, come ricorda lo stesso documento, “alla piena realizzazione della loro umanità”.

È d’altronde più che comprensibile come, in questo momento, se vi sono accademici la cui libertà di ricerca è resa quasi impossibile, questi non siamo noi, semmai gli accademici palestinesi. Inoltre, indire un boicottaggio contro le istituzioni e non contro i singoli studiosi non dovrebbe ledere il diritto, anche agli academici israeliani, di collaborare con colleghi o recarsi in altri atenei, come a noi ricercatori europei di recarci in Israele. Non serve fare un grande sforzo intellettuale per realizzare come un boicottaggio contro le istituzioni non ha come fine quello di interrompere un dialogo, semmai denunciare come solo questo non basti. Per ultimo, trovo ugualmente sciocca la critica rivolta a chi protesta oggi dentro le proprie università basata sul fatto che “anche altri Paesi violano i diritti umani”. Criticare aspramente le politiche del governo israeliano oggi non significa in nessun modo, è evidente, accettare o rifiutare automaticamente altre azioni politiche, riconoscendo, contesto per contesto, quale la strategia più efficace.    

Anche per questo, trovo legittimo che ciascuna e ciascuno di noi, come abitanti di questa grande comunità transnazionale, chieda al proprio ateneo di rendere pubbliche tutte le collaborazioni accademiche, nel campo civile e militare o di dual use, che si intrattengono con lo Stato di Israele: conoscere, caso per caso, i diversi modi con cui collaboriamo, e le loro ricadute applicative sul terreno, ci renderebbe sicuramente più consapevoli di cosa sia e a cosa debba servire la ricerca e l’università. 

Nonostante la stupidità e a volte l’aggressività – basti leggere le dichiarazioni di alcuni rappresentanti della maggioranza del Governo italiano che hanno invitato le forze d’ordine a intervenire in alcuni atenei per impedire che la protesta dilaghi –, nonostante mi ritrovi in tantissime argomentazioni offerte dalle mie colleghe e dai miei colleghi antropologi che han o sottoscritto quel documento che ho più volte richiamato, mi rimane però il dubbio iniziale. 

Leggo nello stesso documento: 

Le università israeliane hanno costruito sedi distaccate nei territori occupati e tutte le università israeliane hanno sostenuto l’attacco a Gaza del 2014 (e anche quello in corso). Gli studiosi palestinesi e israeliani vengono puniti (in modi diversi) per aver parlato contro le pratiche israeliane di discriminazione e abuso. Le università israeliane violano costantemente i diritti dei palestinesi, sia dei cittadini che di coloro che vivono sotto occupazione. 

Non ho elementi, competenze, studi sufficienti per sapere quale sia il dibattito nelle università israeliane – e questo è uno dei principali problemi dei conflitti bellici in corso, ovvero l’impossibilità di fare ricerca e conoscere realmente quel che succede –, ma anche se in queste università “complici” ci fosse un solo ricercatore e una sola ricercatrice che lottano ogni giorno per fare ricerca e cambiare attraverso essa lo stato delle cose, io sono con loro. Se è vero, come si denuncia nello stesso documento, che in alcuni atenei israeliani non c’è libertà di espressione, rimane in me il dubbio di cosa possa voler dire isolare quei colleghi così preziosi anche per la nostra libertà.

*Professore Associato Università di Ferrara

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