(foto di Gianluca Moretto)
Si chiude con un saluto speciale, quello alle Alpi, la stagione di Prosa del Teatro Comunale di Ferrara. Da questa sera (venerdì 12) fino a domenica è in scena Marco Paolini con il suo ultimo lavoro.
Dopo averlo apprezzato nel 2011 con lo spettacolo Itis Galileo e nel 2016 con Ballata di uomini e cani, il drammaturgo bellunese torna con un’opera che trae la sua origine da pandemia e lockdown. E che si presenta con un titolo imperativo: “Sani!”. Dobbiamo essere sani. Abbiamo il dovere di procurare un mondo in cui sia ancora possibile vivere sani.
Da dove viene questo titolo?
“Sani è un saluto concreto non metafisico, che si usava così prosaicamente nella valle del Piave, Era il saluto dei miei nonni. E a me piace”.
Eppure all’inizio, senza conoscere la sinossi dello spettacolo, avevo ingenuamente immaginato un riferimento al Gaber di “Far finta di essere sani”. Qui invece non bisogna fare finta. Bisogna provarci.
“Gaber è un riferimento legittimo da pensare. Gaber è un padre nobile, è sempre uno con cui fare i conti. Però qui non c’è una citazione, non c’è un pensiero che rimandi al suo lavoro”.
C’è invece qualche padre nobile con cui fa i conti in quest’ultima opera?
“Sinceramente non lo so. Lo spettacolo è nato senza un disegno, perché è nato mettendo insieme pezzi di repertorio e canzoni. Si stavano aprendo le prime finestre dopo il lockdown. Era l’estate del 2020. C’era l’urgenza di rimettersi in contatto fisico con le persone. E quindi le storie che raccontavo erano molto più personali. Alla fine mi sono accorto che le storie che avevo scelto erano tutti momenti di crisi”.
E dalla crisi, dalle crisi, che cosa nasce?
“Ci ho pensato… in fondo la pandemia e il lockdown lasciavano addosso la sensazione di star vivendo qualcosa che cambiava le cose. A quel punto ho messo a fuoco gradualmente l’idea che parlarne poteva essere drammaturgicamente interessante. Immaginiamo che le crisi siano etimologicamente dei cambiamenti che ti costringono a lasciare una strada e a doverne prenderne un’altra, anche controvoglia. Il tentativo umano di chiudere la parentesi e di ripercorrere la strada di prima è comprensibile, ma è una contraddizione, perché probabilmente la strada di prima è stata cancellata, travolta. Quindi al bivio bisogna prenderne una diversa. E che lo si faccia consapevolmente o no, dipende da quanto la crisi ti ha aperto gli occhi e quanto invece te li sei tenuti ostinatamente chiusi”.
Si è ispirato a qualcosa che le ha trasmesso una traccia, un sentimento che condivide sull’analisi della crisi pandemica? Spesso i classici le vengono incontro, li addomestica e ne fa vestito. Penso ad esempio a Mario Rigoni Stern e Jack London che a suo tempo hanno ispirato Il Sergente e Ballata di uomini e cani.
“Non sono uno che rilegge La peste di Camus in queste situazioni. Non ricerco il modello letterario, perché ho la presunzione di ficcare il naso e sentire l’odore del mio lavoro, di cercare le parole da un percorso più artigianale di costruzione del testo.
Anche in “Sani!” si cuce addosso esperienze autobiografiche per indossarle sul palco. E si collega al suo ultimo lavoro, incentrato sui temi della crisi climatica e della transizione ecologica.
“Sì, ho messo in fila un insieme di momenti di cambiamento che posso ricordare collegati alla mia vita, alcuni colti come occasioni altri magari colti non subito e di cui prendo consapevolezza in un momento successivo. Questo mi serve in generale per parlare del presente come di un momento di crisi. È evidente che la mia lettura non è esclusivamente quella di una più o meno grande crisi di ordinaria amministrazione, ma di una crisi planetaria. È la crisi del modello di sviluppo, è la crisi della Fabbrica del mondo”.
Sul palco, accanto all’autore attore, in un dialogo stretto alterna storie e canzoni, ci sono Saba Anglana e Lorenzo Monguzzi. A loro si devono le musiche originali che variano tra le sonorità folk mischiate a influenze e stili provenienti da molto lontano. Da un mondo senza frontiere.
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