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24 Luglio 2021

Quattro brevi poesie di Corrado Govoni

di Maurizio Musacchi | 4 min

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Carissimi amici di tutto ciò che aleggia intorno Ferrara: gli autori, le tradizioni, la poesia, la prosa, eccetera.

Questa volta propongo quattro brevi liriche di un grande poeta del nostro territorio. Probabilmente il maggiore del Novecento. Non ho trovato poesie dialettali, forse non le scrisse mai: Corrado Govoni.

Nato a Tamara, presso Copparo nel 1884. Morì a Lido dei Pini, Roma nel 1965. Poeta dai toni accesi e dallo sfoggio verbale, percorse con originalità il complesso universo che si andava muovendo intorno alla “nuova poesia”, sorta nella prima quindicina del XX secolo, attraversando Pascoli e D’Annunzio, ma soprattutto partecipando direttamente al movimento futurista (collaborò ai Quaderni di poesia diretti da F.T. Marinetti) e facendo tesoro delle esperienze simboliste e tardo-simboliste in chiave impressionistica e crepuscolare.

Fece, da giovane, l’agricoltore e anche il commerciante; costretto, per rovesci di fortuna, a un modesto impiego, a Roma, visse lontano dal mondo letterario, pur appartenendovi in pieno per la copiosità di una produzione che, nella costante fedeltà ai propri motivi ispiratori, seppe trovarsi in sintonia con le correnti più vive del tempo.

Pascolismo e dannunzianesimo confluiscono in misura egualmente larga nel suo originario crepuscolarismo (Le fiale, 1903; Armonia in grigio et in silenzio, 1903; ecc.): il primo ravvisabile soprattutto nel suo amore per la natura, per la vita agreste; l’altro, in quella sua sensualità visiva, che gli fa godere le immagini una per una, per accenderle poi e irraggiarle come fuochi d’artificio.

Da dove una certa affinità del G. col futurismo (Poesie elettriche, 1911; L’inaugurazione della primavera, 1915; ecc.), e l’aspetto di filastrocche o “litanie liriche” che hanno i suoi versi (Il quaderno dei sogni e delle stelle, 1924; Brindisi alla notte, 1924; ecc.).

Migliori tuttavia i momenti in cui egli riesce a contenere tanta esuberanza e lunghezza entro forme di canzonetta popolareggiante o vagamente argute (Il flauto magico, 1932; Canzoni a bocca chiusa, 1938; Pellegrino d’amore, 1941; Preghiera al trifoglio, 1953; Patria d’alto volo, 1953; Manoscritto nella bottiglia, 1954; Stradario della primavera, 1958).

Un’intonazione nobilmente malinconica presiede invece ad Aladino (1946), compianto di un suo figlio trucidato alle Fosse Ardeatine. Il G. scrisse anche prose liriche (La santa verde, 1919), novelle e romanzi, sempre di un autobiografismo riversantesi in immagini e colori. Postuma (1966) è apparsa una nuova raccolta di versi, La ronda di notte.

CREPUSCOLO FERRARESE
Il mao si stira sopra il davanzale
sbadigliando nel vetro lagrimale.
Nella muscosa pentola d’argilla
il geranio rinfresca i fiori lilla.
La tenda della camera sciorina
le sue rose di fine mussolina.
I ritratti che sanno tante storie
son disposti a ventaglio di memorie.
Nella bonaccia della psiche ornata
il lume sembra una nave affondata.

Sul tetto d’una prossima chiesuola
sopra una pertica una ventarola
agita l’ali come un uccelletto
che in un laccio per i piedi sia stretto.
Altissimi, per l’aria, dai bastioni,
capriolano fantastici aquiloni.
Le rondini bisbigliano nel nido.
Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.
Il cielo chiude nella rete d’oro
la terra come un insetto canoro.
Dentro lo specchio, tra giallastre spume
ritorna a galla il polipo del lume.
La tristezza s’appoggia a una spalliera
mentre le chiese cullano la sera.

MORTE DEL PARTIGIANO
Dorme nei suoi capelli, vegetali
fili che il sole e il vento scioglieranno
vivi all’alba: una buia sventagliata
di mitra lo sferzò tra capo e collo
come brusca manata di un amico:
così cadde supino, per voltarsi
a riconoscerlo e a scambiare il colpo.
Non sentì allontanarsi per la riva
i passi dei fucilatori, dopo
che gli diedero un calcio per saluto
gridandogli: «Carogna!», e dentro il fiume
scaricarono l’arma e un po’ più avanti
graffiarono rabbiosamente il ponte
di bombe a mano: troppo poco a dare,
anche se così complice od assente,
che la notte straripi di terrore
per un sol sparo secco. Dorme, dorme
lungo disteso, stretto il gonfio collo
nella sciarpa di sangue larga e morbida
sempre più gelida; e il lungo cappotto
indurito di brina è il suo sepolcro.
E la sua patria è l’erba.

VORREI ESSERE ANCORA
Vorrei essere ancora quel bambino
che nella sera d’alto Aprile
spaventata dal grido di mia madre,
catturata la brace d’una lucciola
che aveva il tremolio dei lumi in chiesa

correva nel cortile
a perdifiato per tenerla accesa.

SEPPI COS’È IL CAVALLO
Seppi cos’è il cavallo

sol quando vidi la bambina in rosa
tirare in riva al prato il suo balocco
di cartapesta sulle ruote lucide,
lasciar cadere il filo, alzare il dito
e dirgli: «Adesso, mangia! ».

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