di Federica Pezzoli
Una scena scarna: fondale nero, luci blu, una sedia e strumenti musicali. Non serve altro a Davide Enia per dare corpo e voce ai suoi “Appunti per un naufragio”, il libro che ha vinto in novembre il Premio Internazionale Mondello, il Super Mondello e il Mondello Giovani.
Sulla scena della Sala Estense, Enia porta con sé gli spettatori ne “L’abisso” del Mediterraneo, che ormai è diventato il “camposanto” di chi parte e lascia la propria terra per tentare di reinventarsi una vita.
Anime che sfidano il pericolo insondabile dell’abisso per aggrapparsi alla speranza come a un pezzo di legno in mare aperto; e, dall’altra parte dell’attraversata, un piccolo lembo di terra che allarga a dismisura i propri confini per dare ospitalità: Lampedusa, isola di pescatori che sono diventati pescatori di umanità.
È di queste persone ‘di frontiera’ che Enia racconta, mescolando italiano e dialetto, canti e preghiere; mentre il racconto diventa un ‘cunto’ e lui, regista e interprete di sé stesso e del bravissimo chitarrista palermitano Giulio Barocchieri, si trasforma in pupo e puparo assieme: le parole dicono e i gesti creano le storie.
Storie e corpi che si affollano e si sovrappongono. Non è facile parlare di un tema ostico e controverso come quello degli sbarchi in Sicilia, a Lampedusa, isola diventata crocevia umano di destini, non sempre facili a intrecciarsi. Non è facile l’ascolto di vite spezzate, violate, strappate quasi all’anima con brutalità. Un racconto urgente, profondo, che sa di morte, ma che rivela anche qualcosa sulla forza della vita. Lotta di vita e morte. Questo è “L’abisso”.
Il gigantesco sommozzatore fascista che si è trovato lì a fare quel mestiere e racconta che in mare “non ci sono colori, etnie, religioni”, in mare “ogni vita è sacra” e tre vite sono una vita in più di due. I pescatori che in mezzo ai pesci ogni notte trovano cadaveri da denunciare alle autorità, ogni volta fermati nel lavoro dalla imperante burocrazia. Una burocrazia che rende tutto indeterminato, non come quando al camposanto c’era Vincenzo, che una volta per raccogliere i morti da giorni in mare si è riempito naso e bocca di foglie di menta strappate al vaso dell’orto di casa, determinato a dare sepoltura a quegli esseri riportandoli a dignità.
Perché lì sta il “confine” fra una società civile e una che non lo è più. Un bambino, che sta per annegare travolto dalle onde inferocite, mentre suo padre travolto nell’altro barcone sta per lasciarsi andare nell’abisso pensando suo figlio morto, e invece il bambino viene gettato nella rete ed entrambi sono ‘ripescati’ alla vita.
“L’Abisso” è un evocativo e potente esempio di teatro di narrazione, da ascoltare prima ancora che da vedere, perché le parole, le nenie, il ritmo del cunto e i silenzi – quei silenzi pieni di significato come solo al Sud “muto” se ne possono creare – sono gli strumenti usati per (ri)dare dignità alle parole e (ri)costruire una grammatica dei sentimenti.
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