Eventi e cultura
19 Ottobre 2018
La direttrice del Musée Delacroix in Sala Estense attualizza il rapporto tra il celebre pittore e la fotografia. Non mancano gli elogi alla città

Da Parigi a Ferrara per spiegare Courbet in “una delle sue più belle esposizioni”

di Redazione | 3 min

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Descrivere la pittura di Courbet con parole semplici e parallelismi immediati “non è certo un compito facile”, come osserva la direttrice del Palazzo Diamanti Maria Luisa Pacelli presentando l’attuale direttrice del Musée Delacroix, Dominique de Font-Réaulx, arrivata direttamente da Parigi alla Sala Estense, e dalla quale, viste le emerite premesse, ci si aspettava una conferenza quasi inarrivabile.

Eppure, lo strettissimo rapporto tra il celebre artista francese e la fotografia, nata agli albori della sua carriera artistica, gli consegna una chiave di lettura estremamente attuale, e fruibile fino al 6 gennaio a Palazzo Diamanti in quella che è stata definita da Font-Réaulx “una delle più belle esposizioni di Courbet degli ultimi anni, che si fregia di opere che hanno dato lustro a musei di paesi quali Austria, Stati Uniti e Svizzera, e onorando Ferrara dell’impegno che ha sempre profuso per la cultura”.

Una città, quella estense, che “si presta alla fotografia” esattamente come le opere del realista francese nel diciannovesimo secolo, “sebbene molti suoi contemporanei, come lo stesso Delacroix, operino come se non avessero mai visto una fotografia: un paradosso, al pari di un nostro contemporaneo che non abbia mai usato internet o visto la televisione”.

Questa iniziale ‘distanza’ tra pittura e fotografia, che sembra abbattere solo Courbet, ha creato le basi dell’eterna crepa che ancora divide le discipline umanistiche da quelle scientifiche: lo dimostra l’annuncio ufficiale dell’invenzione della fotografia, nel 1939, “rigorosamente al cospetto dell’Accademia delle Scienze – illustra la direttrice del museo parigino – come se dovesse essere battezzata un’invenzione tecnica e non artistica, come se la fotografia fosse un atto meccanico in cui la realtà si riproduce da sola, non tenendo conto dell’autore e di tanti elementi, come la scelta del soggetto, la luce, il ritaglio, e così via”.

Ebbene Courbet sembra uno dei pochi ad aver compreso che la fotografia è in realtà “figlia della pittura, perché si poggia sulla base fisica della ‘camera obscura’, nonché sulla teoria di Leon Battista Alberti della prospettiva, ed è figlia dell’Illuminismo, per il suo slancio verso il nuovo, ma al contempo del Romanticismo, perché mette al centro dell’obiettivo lo sguardo dell’autore nel mondo e sul mondo”.

Uno sguardo che si è si rivelato e si rivela tutt’ora trasversale ad ogni terra ed ogni cultura, se si pensa che “la fotografia si è sviluppata nello stesso periodo più o meno in tutto il mondo, non solo nei paesi europei ma anche per esempio in Brasile: è come se la necessità di conservare le tracce della realtà e della sua riproduzione, fosse comune a tutti”.

Ciò che Courbet ha provato a fare con il tentativo (purtroppo vano) di “far rappresentare fotograficamente tutte le sue opere nella grande esposizione del 1855 – spiega Font-Réaulx – e creando così un rapporto di complicità fra le due forme artistiche, senza un intento di copiare o duplicare, e quindi di sottomettere l’una all’altra, ma quello piuttosto, di ricerca di una realtà interiore”.

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