Attualità
16 Febbraio 2018
Salviamoci dalla nostra storia storia, finché siamo in tempo

Fascisti e antifascisti

di Ruggero Veronese | 5 min

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Ho amici che si definiscono fieramente antifascisti e dedicano molto tempo e impegno per rivendicarlo. Tutti gli anni, il 25 aprile, pubblicano su facebook o altri social una qualche foto rievocativa del ventennio fascista girata di 180 gradi, a testa in giù, accompagnata da citazioni e riferimenti sul coraggio dei partigiani, la liberazione dallo sterco nazifascista, la vittoria del Bene sul Male.

Trovo sia un modo un po’ paradossale per celebrare il trionfo dei buoni ideali: d’altra parte è pur sempre allo scempio di un cadavere che fanno riferimento tutti quei goliardici post. Il cadavere del nemico: sconfitto, umiliato, seviziato e appeso a testa in giù. Un trattamento non troppo diverso da quello riservato a ogni nemico sconfitto, da parte di ogni temporaneo vincitore, in ogni schifosa guerra nella storia di questo pianeta. Dal cadavere di Ettore trascinato da una biga al pilota di caccia giordano Muath Kasasbeh, bruciato vivo dall’Isis. E in mezzo, da qualche parte nella storia, Mussolini che penzola a testa in giù da un patibolo. Forse perché infierire sul nemico sconfitto ha sempre una sua macabra utilità.
Un macabro modo di cementare il legame tra vincitori. Molto semplicemente.

È per questo che:

  • Diffido delle ideologie
  • Uso poco la parola antifascismo

La userò ancora meno da oggi in avanti, dopo una settimana iniziata con un attacco terroristico fascista nel cuore di Macerata, indiretta ritorsione all’agghiacciante omicidio di una ragazza, e conclusa con una folla inferocita di antifascisti che menavano i carabinieri, indiretta ritorsione al loro essere carabinieri.

Forse la ritorsione è l’unica logica che fascisti e antifascisti riescono a comprendere.
O forse – molto semplicemente – è vero quello che diceva mio nonno, e cioè che chi lavora e conosce il mondo ha poco tempo per appassionarsi alla politica. E quindi che le manifestazioni più o meno incivili contro immigrati, governi, fascisti o gruppi massonici non sono altro che enormi ritrovi di persone con scarse aspirazioni, molta rabbia e pochi hobbies.
Sfortunatamente per noi, é proprio da quei giri che viene tirata su la classe politica del paese.

Quindi mai come in questo momento trovo preziosa la lezione che ho imparato in Giappone, riguardo al miglior modo di raggruppare un popolo attorno a dei valori condivisi.
Giappone che – guarda caso – era una delle tre nazioni al mondo a formare l’Asse del Male Nazifascista.
Giappone che – guarda caso – é l’unica delle tre a non soffrire di rigurgiti neo-nazisti in questo 2018.

Dovete sapere che oggi in Giappone, oltre al fascismo, non esiste nemmeno l’antifascismo: nessun concetto è stato creato ad hoc e messo in contrapposizione alla barbarie che gli stessi giapponesi avevano compiuto. Per i giapponesi non occorre dare una definizione a ciò che è normale e umano, quindi nessun concetto rappresenta la loro lotta per il ritorno alla normalità e all’umanità.

Non esistono nemmeno feste nazionali dedicate alla fine della guerra o alla caduta dello shintoismo di stato: le celebrazioni sono dedicate a concetti più ampi e pragmatici come il rispetto della vegetazione, dei mari, delle persone anziane, la tutela dei più piccoli o la solidarietà sociale. Feste in cui invece di vestirsi da partigiani e cantare il desiderio di fare una carneficina di nazisti si pianta un albero in un parco pubblico. Quando i giapponesi non sono più in guerra non vedono più ragione nel gioire della morte e dell’umiliazione del nemico.
C’è più buon senso, in Giappone, e infatti nessuno va in strada a sparare agli immigrati o a menare le forze dell’ordine. E semmai qualcuno lo facesse, non riceverebbe alcuna forma di solidarietà dal resto della popolazione.
Il Giappone è una nazione molto pratica ed efficiente.

Nella cara vecchia Europa invece – e in Italia in particolare – il buon senso è merce davvero rara e infatti non ci siamo ancora ripresi dalla sbornia di retorica con cui ci hanno riempito le caraffe dal dopoguerra in poi. La retorica ci ha spinto verso la piú grande delle ingenuità, perché invece di affrontare una vera riflessione sui nostri valori e obiettivi nazionali li abbiamo semplicemente legati a tragici avvenimenti che hanno diviso famiglie e territori, a ferite mai davvero rimarginate e a ricostruzioni dei fatti in parte avvolte dalla nebbia della propaganda. In sostanza al sanguinario scontro tra due Italie contrapposte, ieri quanto oggi.
Non un buon modo per unire un popolo.

Di fronte alla crisi d’identità dell’Italia e dell’Europa mi rendo conto di quanto sia manipolabile un popolo con troppa storia alle spalle e poche idee in testa. Ci si ingarbuglia su simboli, stemmi e feticci senza neppure capire da che parte va il mondo. Fino a quando anche l’antifascismo diventa squadrismo, e capisci che le democrazie sono arrivate a un punto veramente critico.

Allora viene il dubbio che oggi gli unici a poter fare qualcosa siano quelli Senza Storia: i ragazzi nati quando le ideologie politiche erano già reperti del passato, abituati a parlare almeno un’altra lingua oltre all’italiano, a frequentare compagnie multietniche in cui ci si conosce per quello che si fa, non per la nazionalità o la religione dei genitori. Abituati anche a fare i conti con la crisi economica, con la fine dell’utopia della crescita continua, con la disoccupazione e i contratti a termine.
Abituati alla realtà, insomma, e non alle favole da boom economico del dopoguerra europeo.

Quindi salvate l’Italia dall’ideologia, ragazzi.
Salvatela dal fascismo, ma anche dall’antifascismo.
Salvatela dalla sua storia. Donatele il senso pratico.
Perché noi, da soli, non ne veniamo più fuori.

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