“Giocate come cristiani”, li invita un agente della polizia penitenziaria. Ma alcuni detenuti musulmani ritengono la battuta un’offesa al loro sentire religioso e nasce una piccola rivolta – con minacce, autolesionismo, resistenza e lesioni a danno di un agente – che coinvolge cinque (ex) detenuti nel carcere di Ferrara.
Fatti per i quali cinque carcerati di nazionalità algerina e tunisina, sono stati condannati dal giudice Carlo Negri con pene che vanno da un anno a un anno e otto mesi di reclusione nel caso più grave.
Il tutto è accaduto tra il 9 e l’11 ottobre 2014 nel carcere dell’Arginone. Il 9 ottobre, mentre i detenuti giocano a calcio nel campo del carcere, un agente – sentito come testimone nell’udienza di martedì pomeriggio – si sente come preso in giro da un fatto: i giocatori buttano spesso la palla oltre la recinzione, costringendolo ad aprire una porta e ributtare la palla in campo. Per lui è un gesto intenzionale, così cerca di far capire che non gradisce troppo e chiede di “giocare come cristiani”. Uno dei detenuti, secondo quanto emerso, prende molto male le parole pronunciate dall’agente e si adira, ritiene offeso il suo credo, costringendo alcuni suoi compagni a mediare e lo stesso agente a chiarire che non aveva nessuna intenzione di offendere ma di aver usato solo un’espressione di uso comune in Italia.
La questione sembra finire lì, gli animi si placano, ma 10-15 minuti dopo, gli imputati iniziano la rivolta, minacciandolo pesantemente: “Ti taglio la gola”, dice uno; “ti taglio la faccia”, pronuncia un altro; “Non fai paura a nessuno, vieni dentro che vediamo” afferma un altro ancora e poi un altro imputato: “Con la tua divisa mi ci pulisco il culo”.
È solo l’inizio. Arrivano altri agenti per sedare gli animi, tutti ritornano alle loro celle. Ma il giorno successivo la protesta prosegue, con altri mezzi. I detenuti, che manifestano intenzioni autolesionistiche, vengono trasferiti in infermeria come da protocollo. Uno in particolare, il più acceso di tutti, lo stesso che polemizzò al momento della partita di calcio, viene messo in una sorta di isolamento, in una stanza in cui non ci sono oggetti con i quali possa farsi del male e fare del male agli altri.
Il comando – sentiti come testimoni l’allora comandante Paolo Teducci e la vice che oggi ha preso il suo posto, Annalisa Gadaleta – nel frattempo decide per il trasferimento di tutti e cinque gli imputati. Ed è a questo punto che scoppia la mini rivolta. I cinque si tolgono le magliette – un ‘classico’ gesto di sfida -, si sentono insulti e minacce e alcuni – compreso l’uomo in isolamento – tirano fuori delle lamette da barba, nascoste probabilmente dentro la bocca, con le quali minacciano di tagliarsi e di ferire gli agenti. Scaturisce una colluttazione nel corso della quale un agente viene ferito a un fianco, colpito da un calcio e da un pugno, tanto da dover andare all’ospedale.
Poi, in qualche modo, la polizia penitenziaria riesce a mettere fine allo scontro, accompagnando i detenuti nei furgoni per il trasporto, dove – racconta Teducci – “almeno due tiravano delle testate al blindato”, mentre gli altri protestavano in maniera veemente.
L’episodio finisce lì, parte però la denuncia per minacce, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni contro i cinque che – dice ancora l’ex comandante – “avevano fatto gruppo”. Dopo poco più di tre anni ecco arrivare le condanne: un anno a chi ha partecipato solo agli atti di resistenza; qualche mese di carcere in più per chi ha aggiunto anche le minacce e un anno e otto mesi per l’imputato accusato di aver colpito l’agente della penitenziaria. Gli imputati – solo tre quelli presenti, perché ancora in carcere, gli altri due sono invece uccel di bosco – professano la loro innocenza su tutta la linea, ammettendo al massimo l’intenzione autolesionista. Inutilmente.
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