3 Ottobre 2015
Le folli contraddizioni dell’industria dell’alimentazione. L'esempio dei 'camion di api'

Il lato oscuro di quello che mangiamo

di Redazione | 4 min

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È un ritorno alla razionalità quello tentato durante l’incontro ‘La tavola verde’, organizzato per il festival di Internazionale a Ferrara nel Teatro Nuovo. Un “risveglio della consapevolezza perduta”, così presenta il moderatore dell’incontro Pietro Del Soldà (Rai-Radio3), “quale è quella dell’inedito privilegio nella storia dell’homo sapiens di non dover più pensare a procacciarci il cibo”. Ma l’industrializzazione dell’alimentazione ha un lato oscuro.

Ne svela le folli contraddizioni Philip Lymbery, direttore generale dell’Ong Compassion in world farming: dal suo viaggio attorno al mondo ne è nato un libro-inchiesta (‘Farmagaddon’, uscito recentemente anche in Italia) che indaga i sistemi produttivi dei cinque continenti, a cominciare dalle migliaia di “filari di Central Valley californiana – introduce Lymbery – dove i rumori della natura sono spariti”, l’aria irrespirabile “è causata dagli allevamenti intensivi di mucche, le cui emissioni – ricorda – causano il 40% del surriscaldamento globale” e non ci sono insetti, “persino le api sono importate per impollinare e poi ricaricate sui camion”. Ma l’insostenibilità delle mega-farm statunitensi è solo uno dei tentacoli del sistema dell’alimentazione globale: sotto il livello del mare si consuma un altro dramma.

La distorsione di un sistema che produce tonnellate di mais e cereali che non sfamano direttamente l’uomo ma vanno ad ingrassare animali stipati in condizioni tremende negli allevamenti si replica anche nell’apparato ittico: pesci che diventano farina per altri pesci. “Negl’anni ’50 è iniziata una guerra contro i pesci – illustra Marco Costantini (Wwf) – che negli anni 2000 è stata vinta: li abbiamo pescati tutti”; i dati riportati forniscono un quadro allarmante: la percentuale di pesca sostenibile è irrisoria, si denuncia (Fao, 2015) il sovrasfruttamento in oltre il 90% degli stock ittici e poi “ci sono i rigetti a mare: su di una tonnellata di pescato – continua – solo il 30% è effettivamente utile al mercato, il resto è buttato morto in mare con un effetto distruttivo sulla biodiversità”. “Non possiamo più permetterci il lusso dell’indifferenza”, tuona Costantini.

Ma in Italia, forti di un tradizione millenaria per il cibo, si ha l’impressione di essere immuni dalla tragedia: “l’Europa è meglio degli Usa e l’Italia è meglio di molti altri Paesi – spiega Paolo Bruni, Centro servizi ortofrutticoli –; qui le norme vigenti assicurano la sicurezza alimentare e bisogna evitare il luddismo culinare: è una questione anche di quantità, si deve sfamare una popolazione sempre in crescita”. L’indagine di Lymbery, in realtà, non risparmia il nostro paese e l’approvazione del Ttip (Transatlantic Trade and Investiment Partnership) comporterebbe un’omologazione anche delle regole di produzione.

Non regge neppure “il mantra della necessità di soddisfare miliardi di persone – evidenzia Lymbery – che è semplicemente non-sense. Gli sprechi sono enormi, e il sistema sovraproduce: il procedimento illogico è quello di produrre raccolti da usare come mangime per animali da allevamento, che potrebbero invece sfamare continenti, così che animali e uomini siano concorrenti alimentari”.

Si deve, ed è un imperativo categorico perchè “non siamo lontanamente vicini ai limiti dell’animal welfare”, tornare a permettere agli animali di “feel the sunshine on their back”, un ritorno alle fattorie. Ed è ancora possibile evitare l’apocalisse (il farmageddon, appunto): lo sostiene Costantini, “fiducioso della sempre maggiore consapevolezza dei cittadini, come dimostra questo teatro pieno”; lo crede Lymbery, che promuove “il ritorno alla terra, a prodotti derivati da animali allevati all’aperto”. Questo perché fare la spesa, ricorda Pietro Del Soldà, “è un atto ecologico e politico”.

Ma allora, la scelta vegetariana, o ancor meglio vegana, è forse da preferire? Benché dalla sala si levino denunce per un approccio troppo antropocentrico alla sofferenza animale, i relatori non vogliono fornire scale qualitative delle pratiche alimentari. Secondo Bruni il punto d’accordo si trova solo sulla necessità di un consumo maggiore di frutta e verdura, “un merito dei vegetariani questo – spiega – perché aiutano alla consapevolezza”; per Costantini si tratta invece di porre l’attenzione sull’etica del cibo e “predisporre, dunque, livelli per ridurre la sofferenza degli animali”. Lymbery, in conclusione, promuove più specificatamente il “mangiare meno carne, ma migliore ed un cambiamento netto dell’approccio al cibo”.

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