di Silvia Franzoni
Riuscireste a distinguere un uomo da una macchina? La risposta risulterebbe tutt’altro che ovvia se, posti davanti ad un monitor, vi chiedessero di determinare se la conversazione dattilografa che state intrattenendo ha come destinatario un uomo in carne ed ossa o una macchina programmata (cleverbot). Questo ‘gioco’ è il test di Turing (‘the imitation game’, come il padre dell’informatica lo definì nel saggio Computing Machinery and Intelligence nel 1950) e voi vi sbagliereste più spesso di quanto possiate credere.
Lo afferma con la posatezza dei britannici il professor Kevin Warwick, scienziato inglese di fama internazionale, invitato ad intervenire in conclusione della XIV Conferenza de AI*IA (Italian Association for Artificial Intelligence). Nonostante la speranza tradita di un traduttore, sono molti gli studenti che hanno preso posto, ieri pomeriggio, nell’aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza per ascoltare la relazione del professor Warwick, tra oltreumano, intelligenza artificiale e limitatezza umana.
Il test di Turing, per le macchine, è davvero complesso: “la macchina è programmata, non ha un esperienze di vita vissuta – spiega il professore della Coventry University – eppure a volta riesce a convincervi di essere più umana di un uomo”. E se questo accade nel 30% della serie di domande a cui la macchina è sottoposta, il test è considerato superato.
La serie di domande-risposte che il giudice scambia con l’entità (di cui dovrà determinare la natura, se umana o cibernetica) non è però ristretta ad un argomento specifico, anzi, si allarga al più classico dei colloqui: “non ci sono risposte esatte si tratta piuttosto – continua – di rispondere nel modo più simile a quanto avrebbe fatto un uomo”. Meglio disquisire sul tempo meteorologico, allora, o giocare sull’humor – “anche se quello inglese, probabilmente, è difficilmente comprensibile anche a chi è fatto di carne ed ossa” per stessa ammissione di Warwick.
L’esperimento si può però adattare anche alla platea ferrarese: alla richiesta di alzare la mano qualora si ritenesse la risposta fedelmente trascritta data da una macchina o da un uomo, la sala ha risposto tutt’altro che timidamente, ma sbagliando di grosso. È però in buona compagnia: nel 2008, il cleverbot Elbot riuscì ad ingannare il 25% dei giudici “e tra questi c’erano giornalisti, ingegneri, scienziati, filosofi, insomma – commenta Warwick – persone certamente colte e preparate”.
“In alcuni casi la macchina non solo trae in inganno il giudice – evidenzia Warwick – ma riesce ad indurlo ad una personificazione più complessa: il giudice può arrivare a credere, in base alle risposte ricevute, che non si tratti semplicemente di una entità-umana ma, ad esempio, specificatamente di un uomo adulto, con tanto di moglie”.
Nel 2014, il cleverbot Eugene Goostman è riuscito a trarre in inganno il 33% dei giudici, superando per la prima volta, e ad esattamente sessant’anni dalla morte del suo ideatore, il test di Turing: un risultato accolto da grandi entusiasmi e grossi dubbi. Il Gioco dell’imitazione, infatti, ha molte restrizioni, risulta ormai datato e per certo non dimostra una attività di pensiero precipua delle macchine. Ma non la nega neppure: “Non dimostra che pensano – conclude fiducioso Warwick – non almeno nel modo comune in cui consideriamo il pensiero”.
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