Eventi e cultura
16 Febbraio 2015
Lo studioso ferrarese riflette sull'eredità della Shoah e sulla drammatica situazione del Medio Oriente

Religioni, violenza e memoria nel pensiero di Piero Stefani

di Redazione | 4 min

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unnamed (29)di Anja Rossi

Corpo e immagine, memoria e testimonianza. Questi sono solo alcuni dei punti di confronto emersi con Piero Stefani, teologo ferrarese, docente di ebraismo alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e presidente dell’associazione Biblia. A gennaio è stato infatti pubblicato per la collana Sguardi di Edb ‘Volti di cenere. L’espropriazione del corpo nei campi di sterminio’, in cui l’esegeta italiano ha rielaborato due dei capitoli presenti in ‘Il nome e la domanda. Dodici volti dell’ebraismo’, del 1988.

Come nasce l’idea di ‘Volti di cenere’?

In ‘Il nome e la domanda. Dodici volti dell’ebraismo’ trattavo di molti aspetti dell’ebraismo e dei temi legati alla Shoah, molto tempo prima che si istituisse il Giorno della Memoria. Sotto richiesta dell’editore ho accettato di riformularne due capitoli, che sono stati integrati, ma non modificati nell’impianto. Nel libro tratto dell’icona del corpo, che è un tema di grande presenza nel mondo contemporaneo e un collegamento diretto ad Auschwitz, da un lato con il corpo che mangia se stesso e dall’altro con il numero sul braccio, reale e simbolico al contempo. Tratto inoltre la domanda più datata ed esposta alla retorica: dov’era Dio mentre c’era Auschwitz? Per me le domande da porsi sono: dov’era il Cristianesimo? Dov’erano le Chiese quando ha preso il potere Hilter? La situazione antigiudaica è accaduta in Occidente, in terre cristiane. Il rischio di banalizzare su Dio non è un rischio, è realtà, e il Giorno della memoria induce ad affrontare il tema. Purtroppo, si sa, i libri e i dibattiti sulla Memoria sono come le stelle natalizie: hanno il loro periodo d’oro e per il resto dell’anno non se ne parla.

Cosa ne pensa del Giorno della memoria?

La storiografia italiana, per molto tempo, è stata orientata più verso la Resistenza che la Memoria. Come ricorrenza, non è stata sentita subito come esigenza nel mondo ebraico e fuori da esso premeva altro. Per l’Italia, il momento di uscita dalla guerra equivalse alla Resistenza, alla fondazione della Repubblica e all’antifascismo. Ci voleva dello spazio, sia temporale che culturale, affinché si arrivasse al concetto di memoria. Serviva un respiro più ampio anche per gli stessi deportati, perché c’era una forma di vergogna diffusa tra chi era sopravvissuto, proprio perché rispetto a tutti gli altri si era salvato, era tornato. Ora che anche alla Memoria è stato dato un valore, forte è il rischio di arrivare a una ritualizzazione del Giorno della memoria, e dunque a una sua saturazione, perché si pensa di sapere già tutto in merito, o perché si tende a considerare gli ebrei come dei ‘privilegiati nel dolore’, una specie di monopolio ebraico sulla quella catastrofe. Il Giorno della memoria non è prettamente ebraico, ma penso riguardi, in senso più ampio, la degenerazione della società. È un cercare di accorgersene prima e non dopo: prevenire è lo scopo auspicato.

Attualmente esiste un ulteriore problema: le testimonianze dirette. Come dare un futuro a questa memoria?

È qui che, secondo me, ha peso la narrazione. Anche qui con il rischio di banalizzare, ma è un modo di comunicare che la storiografia non può raggiungere. Dopo aver ascoltato i testimoni deportati, i bambini salvati, i nascosti, ora ci sono i figli, i nipoti: testimonianze indirette. Diventa quindi necessario sostituire la memoria con la narrazione, sua unica erede. Abbiamo oggetti, simboli, luoghi da far parlare; spesso ci si riferisce a loro come a qualcosa che dà emozione, che per definizione è passeggera. Un sentimento anche forzato perché viene collegato a una condizione tragica, per la quale se non provi emozioni puoi venire rimproverato socialmente. Credo invece che l’emozione debba essere un’occasione dalla quale partire e costruire, non il culmine a cui arrivare.

Rispetto alla violenza ideologica di allora, come vede la violenza di oggi? Cosa pensa di quanto successo un mese fa nella redazione di Charlie Hebdo e delle decapitazioni dell’Isis?

Nei campi di concentramento c’era una forte, forse necessaria, speranza di sopravvivere, tanto che i suicidi avvennero in massa solo dopo la liberazione, non prima. Oggi il corpo è considerato in modo totalmente diverso, adesso il corpo è sempre legato all’apparire: le decapitazioni sono online, c’è della programmaticità. Nell’apparire massmediatico, quindi, trova spazio anche una ‘nuova’ violenza, con un corpo che viene violentato per essere visto. La violenza è pronunciata per essere manifesta: basta un click ed è globale. Per essere efficaci, le morti devono essere mediatiche: prima era violenza effettiva, vera, ora è violenza veicolata su immagini. Tv di tutto il mondo sono rimaste collegate per giorni su Parigi, ma è questa la risposta? Così non si fa che amplificare questa violenza. Ora mi sembra che ciò che più conta sia l’esperienza personale di dire ‘c’ero anch’io’, solo così il mondo diventa più reale di quello reale.

In tutto questo, dov’è finita la religione?

Anch’essa nel mondo mediatico che, a volte, ha anche la capacità sorprendente di mettere insieme tempi antichi con quelli odierni. Per quanto riguarda il mondo cattolico, il Cattolicesimo è un sistema gerarchico, verticistico e funzionale alla comunicazione del papa, figura differenziata già nell’abito. Il papa ha di per sé tutti i poteri, tra cui anche quelli mass mediatici. Il Cristianesimo, che fonda le sue basi nella salvezza dell’anima a discapito della corporeità e nella resurrezione dei morti, gode di un problema enorme. Ora la religione viene considerata come il baluardo ultimo al quale affidarsi e i suoi punti di forza, legati al corpo e alla morte, stanno perdendo consistenza. Credo che il prezzo da pagare per questo nuovo tipo di messaggio religioso sia molto alto, anzi, fatale.

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