
Matteo Botrugno e Daniele Coluccini
Oggi sarà a Ferrara una delle persone più perseguitate d’Italia. Da piccola la sua famiglia non l’accettava. Appena adolescente ha dovuto subire gli abusi di un prete. Da militare di leva è stata accusata di diserzione e ha rischiato il plotone di esecuzione. È finita nel campo di concentramento di Dachau. E da allora lotta per la sua identità.
Lei è Lucy, all’anagrafe Luciano Salani, perché il suo nome “è sacro” e non ha mai voluto cambiarlo. Oggi è conosciuta come – definizione approssimativa – la trans più anziana d’Italia. Per chi ne ha voluto dipingere tratti della sua lunga vita, come i registi Daniele Coluccini e Matteo Botrugno – è “un atto politico su due gambe”.
Lucy questa sera sarà presente alla presentazione del film, “C’è un soffio di vita soltanto”, che sarà proiettato nella Sala Estense da Arci Ferrara alle 21. Un documentario che racconta la sua vita, partendo da una lettera. Quella che riceve a inizio anni 2000 dalla Germania. Una lettera che le chiede di tornare a Dachau, per le celebrazioni del 75º anniversario della liberazione del campo.
Come siete riusciti a convincerla a raccontarsi? A ripercorrere momenti tanto dolorosi del suo passato?
Avevamo visto un filmato su Youtube dove Lucy parlava di sé. Abbiamo voluto conoscerla. Convincerla alla fine è stato semplice. Prima siamo andati da lei senza telecamera, solo per presentarci. Tante volte siamo stati a casa sua solo per aiutarla a fare la spesa o altre incombenze, specialmente durante il lockdown.
All’inizio temeva, parole sue, che fossimo dei “rompicoglioni”. Era molto diffidente, anche a causa di esperienze passate poco gratificanti. Poi ha iniziato a fidarsi, ne è nata un’amicizia. Anzi, possiamo dire che il documentario è nato dall’amicizia, non viceversa.
A livello tecnico le riprese, con la cinepresa quasi a spasso con Lucy, ricordano lo stile Dogma 95, un escamotage che rende ancor più aderente alla realtà il racconto.
Ci piaceva l’idea che la sua narrazione uscisse attraverso i dialoghi quotidiani con le persone che frequenta, nei luoghi dove vive, con chi occupa il suo mondo. Ne esce un affresco della sua vita. Non tutta, quella non ci starebbe tutta intera in nessuna pellicola. Ci bastava tratteggiare il personaggio.
Credo che lo abbiate fatto con estrema delicatezza. Lucy si racconta. Rivela quello che decide di affidare alla telecamera e tiene abbassati per sé forse alcuni sipari. Penso alla figlia praticamente adottata che scompare giovane o agli amori della sua vita.
Siamo stati molto rispettosi della persona, abbiamo lavorato nella sua intimità in punta di piedi, perché quando ti confronti con materiale umano così importante si rischia di cadere nella retorica, in un’enfasi inutile. Abbiamo cercato di renderci il più invisibili possibile nel nostro lavoro. Alla fine avevamo raccolto così tanto che in seguito, in fase di montaggio, abbiamo fatto un’operazione di sottrazione.
Penso alle mani di Lucy, anche loro un monumento vivente. E le immagini indugiano spesso su di esse. In quelle dita passa tutto il secolo che ha trascorso. Eppure sono ancora vive, testimoniano,
Qualche sera eravamo a cena con lei. A chi mi stava di fianco ho detto “guarda che mani”. Sono l’espressione del tempo. Lei era artigiana a Torino. Ha sempre saputo creare con le mani. La sua manualità è ancora intatta, lo si vede mentre è in cucina che prepara il pranzo. Sembra quasi voler loro bene.
Non dev’essere stato facile.
Ci ha aiutato, a contrariis, il repertorio. Abbiamo visionato decine e decine di ore di filmati su fascismo e nazismo. Calcavano tutti la mano su un discorso che è sì centrale, ma che per noi non era l’unico. A noi piaceva raccontare anche un’altra Lucy, quella che pensa che andrà su un altro pianeta, quella innamorata dei film di fantascienza, quella che racconta le filastrocche con la fantasia di bambina. È significativo che il suo film preferito sia Avatar: una persona che entra in un corpo non suo ma che poi vi rimane, perché grazie ad esso scopre l’amore e scopre tutto ciò che non poteva essere nell’altro involucro.
Senza rovinare il gusto della sorpresa, il finale che avete immagino offre speranza o disillusione?
Noi l’abbiamo pensato come segnale di speranza. Lucy ci ha detto che spera che la sua storia possa essere di ispirazione per i giovani, nel sogno che possano vivere in un futuro senza campi di concentramento. Sta capendo di essere un modello. Anche se si chiede come sia possibile, lei che è sempre stata perseguitata. Questo succede perché il suo corpo, la sua presenza, la sua vita, è un atto politico che cammina. Con quella voglia insopprimibile di affermare la sua identità.
Nel film Lucy, parlando di sé, trova una definizione bellissima: “io sono un intruglio”. L’intruglio è una pozione venefica, ma anche un farmaco salvifico.
È vero. Lucy vive e convive con le sue contraddizioni. Dice di non credere in Dio ma per lei il suo nome, Luciano, è sacro. Una volta le chiesero quale fosse la sua più grande paura a Dachau. E lei, pensando a tutti quei morti che era costretta a trasportare nei forni crematori, rispose: essere vivi.
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