Du iu śpich frares?
5 Ottobre 2021

Ricordo e onore per un grande ferrarese di Ripapersico

di Maurizio Musacchi | 4 min

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Carissimi amici,

oggi con profonda mestizia vi propongo una poesia di un grande amico mio e del Dialetto Ferrarese, che ci ha lasciati, per sempre, in questi giorni: Giacomo Cenacchi.

Aveva79 anni. Pochi giorni fa a Ripapersico di Portomaggiore, fuori all’aperto, davanti la piccola chiesa del borgo, una grande folla lo ha salutato. Giacomo era persona molto amata a Portomaggiore e a Ripapersico, dove abitava. Lascia in un incommensurabile dolore, la moglie, due figlie, una nipotina e tanti amici, che lo amavano e stimavano. Fu Insegnante di chimica alla scuola infermieri per anni. Dirigente Agenzia per l’ambiente, ARPA Emilia Romagna fino al pensionamento, avvenuto pochi anni fa. Dinamicissimo, dopo la pensione fu fra l’altro: Presidente Avis Portomaggiore dal 2005 al 2013. Donatore sangue per anni, fra i più costanti.

Collaborò nella gestione del concorso dialettale “Lindo Guernieri” di Portomaggiore. Fu membro del consiglio del Cenacolo “Al Tréb dal Tridèl”. A tal proposito, se questo prestigioso gruppo è ancora presente nella vita cultural dialettale ferrarese, è anche merito suo, non voleva assolutamente che porre fine quel Cenacolo di grande prestigio, in un momento di grave crisi mi esortò a tenerlo in vita e così fece con altri e il “Tridèl” si salvò.

Scriveva poesie ed aveva ottenuti diversi riconoscimenti. Io, per ricordarlo, vi propongo una sua toccante, splendida lirica che mi ha fornito l’amico Claudio Natati, attuale segretario de “Al Tréb dal Tridèl” e che vi propongo così come Giacomo l’aveva scritta: “La campana arbaltàda” (L’amór al témp dal taramòt). In tale toccante composizione, da voce ad un’immaginaria donna che lotta, si risolleva e forma famiglia, nonostante la tragedia del terremoto.

Buona lettura e visione-ascolto, Maurizio.

La campana arbaltàda
di Giacomo Cenacchi
(l’amór al témp dal taramòt)

Stanòt la tèra l’à lidgà col ziél.
La cuvàva int’al séƞ ‘na ràbia antìca
e come al tròη, sóta la vòlta zalèsta,
senza lamp né tempèsta,
la tèra muta la s’è misa a urlàr.
Una vóś mai sentìda, che nisùn capiva;
…asurdànta e treménda.
E l’à vumità la sò anima négra,
e i sò trèmit da paùra.
Ad bòta a s’è śmurzà
la luś culuràda e tranquìla
d’jinsóni ch’iera drè fàr,
int’al bèl pajarìz dla cà ad mié màma.
E la campana l’à sunà un sól bòt,
sórd e malà, int’al bel mezz dla nòt.
Ti è là par tèra, tra la pólvar e il préd,
campana, che coi tò rintòc
t’à acumpagnà i ans dal respìr
dil mié córs da putìna
e i pàlpit ‘dal cuòr
ad ragàza inamuràda.

Admàη am spoś;

la ceśa dal Bórgh l’an gh’à vòlta nè mur.
L’am farà da catedràl al zziél,
la cupola più bèla dl’univers;
e la miè fèsta l’è tra l’udòr di tìli in màģ.
Mo par la strada che l’am porta à l’altàr,

passànd d’arént,
a vój che la mié maƞ
l’àva qualcośa ad sàcar da sfiuràr
in mòd che al mié pansiér
al sàva indòv andàr
int’al mumènt dal dulòr.
L’ àrbul che a piantarò al sçiama Vita

e l’andrà vers al ziél,
come i bòt dla campana risòrta
Alóra a dirò a miè fiòl
che tra la pólvar ‘d ‘sta tèra emiliana,

amàra e bèla,

ch’ la bruntèla ancora la sò ràbia,
come un león in gàbia,
indòv che à cuminzià a bàtar
al sò pìcul cuór spaiśà,
quel ad sò màma al n’à mai tarmà.
La campana atterrata
(L’amore ai tempi del terremoto)
Di Giacomo Cenacchi
Stanotte la Terra ha litigato col Cielo.
Covava in seno una rabbia antica
e come un tuono, nell’etere stellato,
senza lampi né tempesta,
la muta terra ha lanciato il suo urlo.
Una voce nuova, incomprensibile;
…assordante e tremenda,
e ha vomitato la sua anima nera,
e i suoi sussulti agghiaccianti.
Di colpo si è spenta
la luce colorata e tranquilla
dei sogni che stavo facendo,
nel sicuro giaciglio nella casa di mia madre.
E la campana ha suonato un sol rintocco,
sordo e malato, nel bel mezzo della notte.
Sei là sul suolo, tra la polvere e i detriti,
campana che coi tuoi rintocchi
hai accompagnato il respiro ansimante

delle mie corse di bimba
e i palpiti del mio cuore
di ragazza innamorata.
Domani mi sposo;.

la chiesa del borgo non ha più volta né mura.

Mi farà da cattedrale il cielo,
la cupola più bella dell’universo;
e la mia festa è sotto i tigli odorosi del Maggio;
Ma lungo la strada che mi porta all’altare,

passandoti vicino,
voglio che la mia mano
abbia qualcosa di sacro da sfiorare
in modo che il mio pensiero
sappia dove andare
nei momenti del dolore.
L’albero che pianterò ha nome Vita
e salirà verso il cielo,

come i rintocchi della campana risorta.
E allora dirò a mio figlio

che tra la polvere di questa terra emiliana,

amara e bella,

che ruggisce ancora la sua rabbia,
come un leone in gabbia,
là dove ha cominciato a battere
il suo piccolo cuore spaesato,
quello di sua madre non ha mai tremato.

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