L'inverno del nostro scontento
1 Luglio 2020

Lettere dal tempo del coronavirus – 7. You’ll Never Walk Alone

di Girolamo De Michele | 9 min

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Onde, poi che il cielo non ci permette per la mortifera pestilentia pascere più le orecchie di quei dolci ragionamenti et gli occhi di quei grati obiecti che già soleano ogni noiosa cura alleggierirne, non ci priviamo almeno di visitarci con lettere, conforto non piccolo in tutte le miserie humane (Niccolò Machiavelli)

le altre lettere sono qui (1), qui (2), qui (3), qui (4), qui (5) e qui (6)

Stiamo arrivando alla fine di queste lettere. Quella di oggi ha una particolarità, che la collega alla precedente sulla scuola che verrà (o che dovrebbe venire): è la rielaborazione di una lettera che ho mandato per Pasqua alle/ai mie@ student@. Parla di una canzone, You’ll never walk alone, che durante le lezioni a distanza, quella scimmiottatura della didattica che siamo stati costretti ad attuare per il lockdown, usavo come “sigla” di apertura: il motivo è nel titolo stesso. È una canzone molto nota, ma di cui pochi conoscono la storia: ad esempio, quasi nessuno sa come è nata. La canzone, nella versione originale, ma con un video del 2012, è questa:

Il testo dice:

When you walk through a storm, Keep your chin up high, And don’t be afraid of the dark. At the end of a storm is a golden sky, And the sweet silver song of a lark. Walk on through the wind. Walk on through the rain, Tho’ your dreams, Be tossed and blown. Walk on, Walk on, With hope in your heart, And you’ll never walk alone, You’ll never walk alone
(Quando attraversi una tempesta tieni alta la testa, Non avere paura del buio: Alla fine della tempesta c’è un cielo d’oro, E la dolce canzone d’argento dell’allodola. Attraversa il vento, Attraversa la pioggia, Fossero anche i tuoi sogni sconvolti e distrutti, Va avanti, va avanti con la speranza nel tuo cuore, E non camminerai mai da solo, Non camminerai mai da solo)

You’ll Never Walk Alone ha una storia, che adesso vi racconto (ricordate che sono un insegnante di storia).
Nasce come canzone all’interno del musical Carousel, del 1945: una complicata storia d’amore fra un’operaia e un giostraio che, morto, diventa una specie di angelo; secondo alcuni, sarebbe il miglior musical del XX secolo (io voterei per Jesus Christ Superstar, ma questa è un’altra storia). La canzone originale potete sentirla qui. All’interno della storia narrata, il suo senso è che noi non siamo mai soli, nonostante le avversità della vita, perché qualcuno dall’alto veglia su di noi. Gli autori di questo musical, Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II, intendevano, credo, incoraggiare gli americani ad andare avanti dopo la fine della guerra; non per caso, due anni prima avevano scritto il musical Oklahoma, una storia ambientata fra gli Okies, quegli abitanti del cuore degli Stati Uniti che negli anni della grande crisi dei Trenta hanno rappresentato la lotta tenace contro le avversità, che siano le Streghe Malvagie dell’Est e dell’Ovest che affronta Dorothy nel Mago di Oz (Dorothy vive in quella parte del sud Kansas i cui abitanti sono anch’essi chiamati Okies), o la povertà che costringe a migrare Tom Joad e la sua famiglia in Furore. Non per caso, Okies è il nomignolo spregiativo col quale venivano chiamati, durante la crisi degli anni Trenta, i migranti (un po’ come i “terroni” o i “marocchini” da noi). Vi ho nominato Tom Joad, protagonista del romanzo di Steinbeck e del film di John Ford: fermiamoci un momento ad ascoltare il suo monologo finale attraverso Henry Fonda (è un po’ diverso dalla pagina del romanzo, ma lo spirito è fedelissimo):

Passano gli anni, e nel 1963 la band di Liverpool Gerry and the Pacemakers la reincide, nella versione che vi ho proposto. Oggi non li ricorda nessuno che non abbia i capelli quantomeno brizzolati (posto che li abbia ancora, i capelli), ma nel 1963 questa band se la giocava alla pari con i Beatles: e infatti la loro canzone balzò al primo posto delle classifiche la stessa settimana della pubblicazione. Gerry Marsden e i suoi compagni di band venivano dalla zona portuale e proletaria del Mersey (come del resto i Beatles), e aggiungono un secondo significato alla canzone, che caratterizza la cultura del merseybeat di Liverpool: non sarai mai solo, perché ci siamo noi, che nei nostri quartieri siamo abituati a sostenerci l’un l’altro.
Per una ragione che nessuno ha mai ricostruito con esattezza, questa canzone diventa l’inno dei tifosi del Liverpool (e anche del Celtic di Glasgow), e viene cantata ad ogni partita. E proprio questo coro, registrato all’Anfield Stadium, viene inserita nel 1971 dai Pink Floyd nella loro canzone Fearless, all’interno di quel gioiello di perfezione che è Meddle. La seconda parte del testo dice:

Fearlessly the idiot faced the crowd, Smiling. Merciless the magistrate turns round, Frowning. And who’s the fool who wears the crown, No doubt in your own way. And every day is the right day, And as you rise above the fear-lines in his brow, You look down hear the sound of the faces in the crowd.
(Senza paura, l’idiota sfida la folla, Sorridendo. Impietoso, il magistrato si volta, Corrucciato. E chi è lo stolto che indossa la corona? Nessun dubbio a modo tuo. Ogni giorno è quello giusto, E mentre ti ergi Sopra le rughe di paura nel suo sopracciglio, Guarda giù, Senti il suono dei volti nella folla)

I Pink Floyd hanno aggiunto un terzo significato: la paura è una componente della nostra vita, e tutti noi dobbiamo affrontarla e superarla, cercando di non essere soli, perché potremmo cadere nella follia. Un tema frequente nella loro poetica, soprattutto negli anni Settanta, soprattutto col prevalere di Roger Waters all’interno della band.
Mezzo secolo dopo la loro versione, Gerry and the Pacemakers ripubblicano la canzone: e di nuovo salgono al primo posto delle charts. Alla riedizione è associato il video, che con linguaggio delle immagini arricchisce ancora il significato della canzone, mettendo in primo piano il legame di solidarietà, senza distinzione fra età, genere, o qualsivoglia altra divisione, che ci impediscono tutt’oggi di pensarci come genere umano, o come specie, invece di dividerci fra “noi” e “loro”: una distinzione che il virus non conosce, come non la conosce il mutamento climatico. Siamo noi, che ci dividiamo in ricchi e poveri, normali e diversi, giusti e sbagliati, a creare barriere che separano chi è colpito di più e chi di meno dalle tragedie delle guerre e della natura.

Come la carestia che costringe la famiglia Joad, in Furore, a migrare.
Mentre sono qui a scrivere, i miei fratelli e sorelle della nave Mare Jonio hanno appena tratto in salvo 43 migranti: nessun essere umano è illegale. La Mare Jonio è la nave di Mediterranea, l’organizzazione con la quale collaboro, e alla quale devolverò il compenso da commissario d’esame, perché quegli esami non li avrei voluti fare: mentre sbrigavo l’ordinaria burocrazia richiesta dalle procedure, perché così andava fatto, come se nulla in questi mesi fosse successo, mi sono sentito come in un bar sport in cui si discute del campionato che deve ripartire perché la mia squadra deve vincere lo scudetto o salvarsi o andare in coppa – e allora tenetevi il vostro scudetto, la vostra serie A, la vostra coppa. E anche i vostri quattro soldi? No: con quelli aiuterò a salvare qualche vita umana: come farebbe Tom Joad.

Tom Joad, in Furore, dice che nessuno ha un’anima individuale, ma ciascuno ha un pezzetto di una grande anima, che è la grande anima di tutta l’umanità: ed è per questo che nessuno può morire del tutto, e ciascuno rimane ovunque ci sia un essere umano che soffre e combatte per la vita. Lasciamolo dire a lui (cioè a John Steinbeck):

Casy diceva che una volta era partito nel deserto, era andato per cercarvi la sua anima, e aveva scoperto che non aveva un’anima che fosse sua, ma che era solo un pezzo di un’altra anima immensa. E aveva capito che non bisogna andare a vivere nel deserto, perché il il nostro pezzo d’anima non può servire da sola, serve soltanto quando sta con gli altri pezzi dell’anima grande, e cioè quando si vive in mezzo agli altri uomini. Quando mi diceva queste cose, non mi pareva neanche di stare ad ascoltare; eppure adesso me le ricordo per filo e per segno. È perché anch’io ora ho capito che non bisogna starsene soli. Alle volte raccontava parabole della Scrittura. Me ne ricordo una, perché me l’ha ripetuta due volte. Diceva: Due è meglio che uno, perché ricavano maggior profitto dalle loro fatiche. Se uno cade, l’altro lo aiuta a rialzarsi, ma guai a chi è solo e cade, perché non c’è nessuno che lo aiuta.

Tom Joad è una specie di fantasma che ritorna di continuo, ovunque ci sia qualcuno che soffre. Se aguzzate lo sguardo, lo vedete laggiù anche voi: No home no job no peace no rest. Welcome to the new world order (Nessuna casa, nessun lavoro, nessuna pace, nessuna sicurezza. Benvenuti nel nuovo ordine mondiale). Così ce lo racconta Bruce Springsteeen, in una delle sue ballate, The Ghost of Tom Joad:

Now Tom said “Mom, wherever there’s a cop beatin’ a guy, Wherever a hungry newborn baby cries, Where there’s a fight against the blood and hatred in the air, Look for me mom I’ll be there, Wherever there’s somebody fightin’ for a place to stand, Or a decent job or a helpin’ hand, Wherever somebody’s strugglin’ to be free: Look in their eyes Mom you’ll see me.”
(Tom diceva “Mamma, ovunque un poliziotto picchia un ragazzo, Ovunque un bambino nasce gridando per la fame, ovunque si lotta contro il sangue e l’odio nell’aria, Lì cercami mamma, io ci sarò. Ovunque si combatte per uno spazio di dignità, Un lavoro dignitoso o una mano d’aiuto, Ovunque qualcuno lotta per essere libero, Guardali negli occhi mamma: lì vedrai me”)

Direte: tante cose tutte insieme. Forse: però a volte i fili si incrociano sul retro del tappeto, e si connettono fra loro. Così accade che nel 2015 Roger Waters organizzi un concerto di beneficenza assieme alla MusiCorps Band, che trovate per intero qui. MusiCorps è un progetto nato per riabilitare i soldati mutilati nel corpo e nell’anima dalle guerre in Afghanistan e Iraq attraverso la musica. Con le loro protesi testimoniano l’assurdità della guerra, con la loro arte la possibilità di riscatto. E accanto a Roger Waters si alternano sul palco Tom Morello, chitarrista della band di Bruce Springsteen, ma soprattutto dei Rage Against the Machine (nel mio cuore non gliel’ho mai perdonato, di aver lasciato i RATM), Sheryl Crow e Billy Corgan. E grandi musicisti reduci di guerra come J.W. Cortéz (straordinaria la sua interpretazione di A Change is Gonna Come) e Tim Donley (la sua Hallelujah mette i brividi). Ed eccoli lì, Tim Donley che ha perso le gambe in guerra e suona la chitarra e Tom Morello col suo pugno alzato, e Roger Waters dei Pink Floyd: nessuno di loro cammina da solo, mentre la loro grande anima canta… e cos’altro potrebbero cantare? The Ghost of Tom Joad!

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