L'inverno del nostro scontento
22 Aprile 2020

Lettere dal tempo del coronavirus – 2. Non siamo in guerra, perché non è una guerra

di Girolamo De Michele | 10 min

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Onde, poi che il cielo non ci permette per la mortifera pestilentia pascere più le orecchie di quei dolci ragionamenti et gli occhi di quei grati obiecti che già soleano ogni noiosa cura alleggierirne, non ci priviamo almeno di visitarci con lettere, conforto non piccolo in tutte le miserie humane (Niccolò Machiavelli)

la prima lettera è qui

È una delle espressioni più ricorrenti, quasi sempre abusata: siamo in guerra contro il virus. Se non è guerra è lotta, in ogni caso il virus è il nemico da sconfiggere, e noi siamo tutti quanti una via di mezzo fra i berretti verdi guidati da John Wayne e l’esercito di Wallenstein nella guerra dei Trent’anni. Vorrei provare a spiegarvi perché non è vero che siamo in guerra, e perché non dovremmo usare quella metafora.

In primo luogo, dovremmo fare sempre molta attenzione all’uso delle metafore, e delle figure retoriche in genere. Perché quando le usiamo, crediamo di aggiungere una didascalia a quello che stiamo dicendo: una figura che aiuta a capirsi, un disegnetto esplicativo. Ignorando, o dimenticando, che le figure retoriche – soprattutto le metafore – vivono di vita propria, così come il linguaggio, che noi consideriamo impropriamente cosa nostra (mentre siamo noi ad essere del linguaggio, ad esempio esprimendoci in una lingua che esisteva prima di noi, e si evolverà indipendentemente dall’uso che noi ne facciamo). Se io voglio criticare due tali che stanno litigando fra loro invece di preoccuparsi di qualcosa di più grave che colpirà entrambi, posso evocare i polli di Renzo: un’immagine che rende l’idea. Poi il significato della figura retorica svanisce col distogliere l’attenzione da quella lite verso un altro evento; però c’è un sottotesto nascosto, che traspare in filigrana, che permane senza che ce ne rendiamo conto, impigliato nei nostri neuroni: che nel ricorrere all’immagine di Manzoni, io ho implicitamente paragonato due esseri umani a due animali, sottintendendo che gli animali sono esseri inferiori e che, di conseguenza, quei due si comportano come animali perché sono a loro volta inferiori. L’immagine va via, ma nei neuroni rimane impigliato questo insieme di nozioni: la gerarchia di intelligenze, l’inferiorità degli animali, il fatto che comportarsi come animali sia qualcosa di sub-umano.
Vi ricordate quando il governatore del Veneto ha detto che i cinesi si ammalavano di coronavirus e i veneti no, perché i veneti mangiano sano e i cinesi mangiano topi vivi? Poi Zaia si è scusato, ha detto che era «una frase uscita male». Sarà… ma nei neuroni di chi lo ha ascoltato restano impigliate una serie di nozioni in sé false: che i cinesi mangiano topi vivi (non è vero, naturalmente); che il virus si assume per via alimentare, il che è ben più grave (di nuovo, non è vero); soprattutto, che i cinesi sono inferiori per costumi e cultura, il che sottintende che siano sub-umani (argomento col quale raffinati intellettuali illuministi e/o liberali giustificavano lo schiavismo). Per inciso: i cinesi non mangiano topi vivi, ma alcuni amministratori veneti del partito di Zaia mangiano nutrie.

Dire che siamo in guerra contro il virus è un errore dal punto di vista fattuale, perché il virus non è nostro nemico. Il nemico è qualcuno dotato della volontà di nuocere, mentre il concetto di volontà è inapplicabile a un virus. Il nemico agisce per scelta, in base a principi e costumi oggetto di giudizio (buoni o cattivi, per semplificare; oppure, utile o non, il che è una pericolosa sostituzione della coppia bene/male). Il virus, semplicemente, non ha una coscienza morale, non ha nemmeno una coscienza, non è neanche corretto dire che agisce: si limita a esistere. Per citare una mia amica antropologa:

L’ecologia delle malattie infettive ha dimostrato che i virus non sono entità intenzionali che mirano a uccidere l’uomo, ma indicano che l’equilibro in un ecosistema si è modificato (e di certo dall’ecologia politica abbiamo imparato è che i confini tra “specie” sono sempre instabili e prodotti). Gli umani tendono a pensare di essere al centro dell’ecosistema quando sono solo uno degli attori.

I virus, in fondo, svolgono la funzione di decentrarci e mostrarci la nostra dipendenza da altre specie, facendoci comprendere che l’essere umano non è indipendente, men che meno sovrano nella e della natura. Ma questo, per noi umani, è duro da capire.
Sigmund Freud ha detto una volta che il narcisismo dell’essere umano aveva subito, nella storia, tre ferite: la scoperta di non essere al centro del cosmo (per “colpa” di Copernico); la scoperta di non essere lo scopo della natura, ma di essere un segmento qualunque di un più generale vivente che si evolve senza avere uno scopo – e senza una provvidenza che lo guidi (questa “colpa” è di Darwin); infine, lo stesso Freud aveva inferto il terzo colpo al nostro narcisismo spiegandoci che non siamo padroni dei nostri desideri e delle nostre volizioni – in realtà non esiste neanche un “Io” che guida la nostra multiforme e controversa personalità.
Però lo stesso Freud riconosceva che, per quanto la psicoanalisi possa far bene, ci sarà sempre un numero maggiore di esseri umani che preferiranno affidarsi alla Madonna di Lourdes. E siccome si può andare a Lourdes anche rimanendo nella propria stanza, abbiamo creato dei falsi miti per riempire il vuoto di quelle ferite, piuttosto che imparare ad abitarle.
Mentre Copernico e Galilei cominciavano a spingerci ai margini dell’universo, la nascita degli Stati assoluti e il colonialismo europeo rimettevano l’uomo – maschio, bianco, europeo, sano, eterosessuale, benestante – al centro di un modo fittizio, ma spacciato per reale, e come tale creduto.
La rivoluzione industriale ha creato un modo nel quale l’uomo è stato contrapposto non solo all’altro, ma anche a se stesso (quella che volgarmente si chiama alienazione), generando una identità fittizia, ma scambiata per reale; e ha dato la stura al dominio incontrollato dell’essere umano nei confronti della natura, scambiata per un deposito di risorse illimitate. Scacciato per un attimo da Darwin, il delirio di onnipotenza sulla natura è rientrato dalla finestra; con le parole di Gregory Bateson:

Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. […] Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la vostra probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve.

Alla dura fatica, dopo Nietzsche e Freud, di costruire giorno per giorno la nostra soggettività, di diventare quel che si è assumendosene le responsabilità, rispondeva il sorgere dei totalitarismi, dei fascismi, dei nazionalismi esasperati (ben altra cosa dai nazionalismi romantici dell’Ottocento, che sognavano di unire invece che dividere): un Io ipertrofico, a sua volta assoggettato al Super-Io dell’uomo forte, riproponeva la servitù volontaria dell’identità. E quando non c’è un Uomo della Provvidenza, c’è una rete pulviscolare di poteri che produce comunque un’identità fittizia, assoggettata a un potere che si percepisce come superiore e immutabile.

In ciascuno di questi processi la “riconquista” del centro della scena comporta la divisione del genere umano in un “Noi” contrapposto a un “Loro”: noi siamo al centro, e lo difendiamo da “quelli” della periferia. Un “Noi”, sia chiaro, fittizio: l’ennesima maschera che ci impedisce di vedere l’origine di queste divisioni in classi, razze, segmenti, generi.
Così, quando scoppia la pandemia – invano gli scienziati ci avevano avvertito da tempo –, la nostra reazione è di pensare che, nella nostra onnipotenza, a “Noi” non può accadere: accade a “Loro”. E se teniamo “Loro” fuori dai nostri confini, il virus non ci colpirà. Il virus è il “nemico” contro cui “siamo in guerra”: e siccome il virus non si vede, il nemico in guerra lo abbiamo cercato nel cinese (così come, ai tempi della caccia alle streghe, i demoni invisibili li cercavamo nel corpo delle donne torturate e arse vive dagli inquisitori).
Se non ché, mentre aspettavamo un cinese infetto, il virus entrava in Italia scendendo dall’aereo attraverso un manager di ritorno dalla Baviera. Mentre c’era chi chiedeva la quarantena per i cinesi, erano i bravi lombardi, indistinguibili dai veneti o dai toscani, a diffonderlo nelle stazioni sciistiche trentine, nelle seconde case in Val Tidone, nelle cliniche piacentine, nel Canton Ticino, ecc. Il virus si relaziona a noi non in quanto bianchi, gialli o neri, ma in quanto specie, senza conoscere confini, barriere, frontiere.

Il filosofo Agamben ha criticato più volte in questi giorni le politiche di contenimento (non entro nel merito: mi limito a dire, usando anch’io una metafora, che ha gettato via il bambino con l’acqua sporca), per effetto delle quali saremmo indotti a considerare il nostro prossimo come potenziale untore, o quantomeno una possibile fonte di contagio. In tutta franchezza, quando è arrivato l’AIDS e ho cominciato a praticare una sessualità tutelata dall’uso consapevole del preservativo, non consideravo le mie partner come potenziali untrici per il semplice fatto di accordarci su una precauzione implicita nella nostra relazione, stabile o occasionale che fosse. Non mi intristiva il preservativo: mi intristivano (e mi intristiscono tutt’ora, quando li ricordo) gli amici che quel virus ha portato via.
In realtà, è il nostro delirio di onnipotenza che ci porta a pensare che potremmo rimanere immuni: il contagio è una delle relazioni cui siamo inevitabilmente esposti, così come la vulnerabilità è la nostra condizione di esistenza. Siamo portati a pensare al nostro corpo come a un qualcosa distinto da altri: questo errore ci impedisce di comprendere che il nostro corpo è composto da molti altri corpi, e a sua volta è in relazione con molti altri corpi. Un corpo dipende da altri corpi, e da una serie di supporti: la sua debolezza, la sua limitatezza, la sua vulnerabilità sono le condizioni stesse della nostra socialità, del vivere comune, del tessere relazioni sociali, politiche, amorose. Con una felice battuta, la filosofa Judith Butler ci ricorda che «nonostante i secoli di proclami a proposito dell’Homo erectus, l’umano non sta in piedi da solo». Nessuno vive isolato in una camera iperbarica: la malattia è una relazione fra noi e ciò in cui siamo immersi, ed esiste per il semplice fatto che noi esistiamo.

Il che non vuol dire che non dobbiamo cercare di preservare la nostra esistenza. Vuol dire che se invece di crederci potenzialmente immuni avessimo sin dal primo giorno dato per scontato che saremmo potuti, in quanto umani, essere affetti dal virus, avremmo cercato di predisporre le nostre istituzioni sanitarie. Non è difficile: il 21 gennaio (a quanto ne sappiamo, il “paziente 1” ha portato il virus in Italia il 24), alla Ferrari veniva deciso l’acquisto di mascherine e bombole di ossigeno, e l’attivazione di misure di sicurezza analoghe a quelle attivate in Cina (e magari ci sarà stato un amministrativo della contabilità che avrà obiettato che spese del genere non erano giustificabili, quindi non fiscalmente scaricabili).
Se invece di strepitare istericamente sulla chiusura delle frontiere si fossero per tempo rafforzati i presidi sanitari, partendo dalla constatazione che il virus non sarebbe rimasto confinato nella provincia di Hubei, è probabile che quello che è stato considerato un picco di polmoniti da influenza stagionale sarebbe stato riconosciuto nella sua vera natura. Se fossero stati predisposti, come in Cina, adeguati ricambi al personale medico, evitando quei turni stressanti che sono la norma e che hanno offuscato la capacità di riconoscere l’improbabile dietro il consueto; se i primi pazienti fossero stati, oltreché identificati, ricoverati in ambienti idonei, il virus non avrebbe avuto una diffusione epidemica (come e perché sia successo quel che è successo sarà oggetto della prossima lettera).

Il giorno del primo morto in Italia, un piccolo uomo dall’animo gretto ha scritto: Adesso difendetevi dal contagio con l’antirazzismo, idioti. L’idiota è colui che cura solo il proprio interesse privato, che vive lontano da ogni civile commercio e, povero di lettere, divide il mondo fra il proprio ombellico e gli altri: ma spiegare a quel meschino cos’è l’idiozia significherebbe avventurarsi in mondi paradossali popolati da barbieri che si radono da soli e mentitori cretesi che dicono la verità (in ogni caso, anche di questo ne riparleremo).
Essere antirazzisti significa pensarsi come specie, e considerare ogni essere umano degno di cura e protezione (l’ho già scritto, e lo ripeterò in ogni lettera): è per questo che, se ci salveremo, sarà proprio con l’antirazzismo. Che non è un generico umanitarismo, ma il terreno di un conflitto contro chi, indicando nemici fittizi, impedisce di riconoscere il vero pericolo.

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