L'inverno del nostro scontento
14 Aprile 2020

Lettere dal tempo del coronavirus – 1. Tre uomini paradossali

di Girolamo De Michele | 10 min

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Comincio oggi la scrittura di un testo, suddiviso in lettere a cadenza discontinua, sui giorni che stiamo vivendo, per chi ha interesse alla mia voce. Grazie alla testata che mi ospita, e a lettrici e lettori che vi dedicheranno qualche minuto e qualche riflessione

“Onde, poi che il cielo non ci permette per la mortifera pestilentia pascere più le orecchie di quei dolci ragionamenti et gli occhi di quei grati obiecti che già soleano ogni noiosa cura alleggierirne, non ci priviamo almeno di visitarci con lettere, conforto non piccolo in tutte le miserie humane” (Niccolò Machiavelli)

“Tre uomini paradossali” è un sintagma di Eugenio Montale: e di tre uomini paradossali voglio qui parlare. Paradossali, perché hanno la capacità di dire l’universale mentre parlano del particolare. È un po’ l’introduzione alle lettere che seguiranno, questa prima: e in buona parte anticipa e contiene tutte le altre, che la svilupperanno.
Il primo è il presidente della Repubblica d’Irlanda, Michael D. Higgins. Fra le molte ragioni per cui il presidente Higgins mi è caro, una è prevalente: due anni fa si è recato ai festeggiamenti per il 60mo compleanno di Shane McGowan, per omaggiarlo.
Il 13 marzo, il presidente Higgins ha dovuto parlare alla nazione irlandese: alla vigilia del giorno di San Patrizio, col suo discorso ha contribuito in modo determinante, pur senza sovrapporsi alle prerogative del governo e della Chiesa, alla sospensione dei festeggiamenti per il St. Patrick’s Day non solo in Irlanda, ma in tutto il mondo. Con l’epidemia di coronavirus in atto, i festeggiamenti avrebbero causato una probabile ecatombe. Uomo di cultura, il presidente Higgins conosce forse sia Manzoni che le cronache del Ripamonti sulla peste del 1630, e sulla catastrofica processione in onore di san Carlo che ne favorì la diffusione. Il presidente Higgins ha fatto appello ai più alti sentimenti, nel suo discorso. Ha ricordato che i valori della solidarietà e del bene comune giocano un ruolo fondamentale nella sfida cui siamo chiamati, e lo spirito di solidarietà e cura verso gli anziani, i malati, i vulnerabili e i marginali: uno spirito necessario in un tempo che richiede cittadini generosi e compassionevoli. E poi, ha ricordato che essere irlandese significa essere parte di una più vasta famiglia globale, a dispetto delle miglia, dei confini e degli oceani che possano separarne i membri: in nome di questa comunità globale ha esortato allo spirito di solidarietà e cooperazione, perché è questo – non l’essere confinato dalle frontiere dell’isola d’Irlanda – che significa essere irlandese. E poi ha allargato ancora di più il raggio, stendendo la sua mano in segno d’amicizia attraverso l’intero globo a quelli che sono irlandesi per nascita, discendenza o associazione, e a quelli che hanno aiutato il popolo irlandese, o che semplicemente hanno interesse nelle cose d’Irlanda: cioè, potenzialmente, l’intera comunità globale. Io che ho fatto autostop verso Galway e pogato al concerto dei Pogues, che ascolto le ballate di van Morrison e leggo Beckett, mi sono sentito interpellato come un dubliner qualunque. Siamo tutti in qualche modo irlandesi, perché siamo esseri umani in relazione con loro e con noi: Beir Beannacht, Presidente.

Il secondo uomo paradossale è Jorge Maria Bergoglio, per quello che ha fatto il 27 marzo scorso, quando in una livida serata, sferzato dalla pioggia, in una piazza S. Pietro vuota, ha pregato per implorare la fine della pandemia e far giungere all’umanità in balia della tempesta l’abbraccio consolante del Dio che dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Si dirà: ha parlato ai cattolici (così come Michael Higgins ha parlato agli irlandesi). No: quello che papa Francesco ha fatto è stato, sul piano simbolico, qualcosa di straordinario, inaudito. E il simbolico è qualcosa di reale, spesso più di quello che chiamiamo “realismo”: il simbolico è parte di quel Reale che il realismo è costretto a sopprimere, scriveva Mark Fisher.
Quella piazza è nota, credo, a tutti: un doppio colonnato che abbraccia la piazza per simboleggiare l’inclusione dei fedeli nella Chiesa. Un’inclusione che è però escludente: extra ecclesia nulla salus, extra ecclesia nemo salvatur. Solo per chi è nelle braccia della Chiesa c’è salvezza, solo per la pecora che accetta il ruolo del pastore. Il simbolismo cristiano delle origini ha costituito la matrice del potere politico: il potere pastorale, che richiede l’obbedienza del gregge perché non riconosce alla moltitudine la capacità di conoscere il vero e agire di conseguenza, in autonomia, senza guida.
Ma quella sera, in una scenografia dettata dalla natura stessa, fra le tenebre materiali e simboliche, non c’era un gregge al riparo delle braccia della Chiesa. Fate mente locale, per un istante solo, al precedente pontefice, che aveva reintrodotto la messa con le spalle voltate ai fedeli, in omaggio alla liturgia: riflettete sul valore simbolco di quella rappresentazione. E ora tornate con la mente al 27 marzo: il papa non dentro, ma davanti alla basilica, fronteggiava una piazza vuota che si apriva verso il fuori – verso il mondo intero. Il doppio colonnato non abbracciava, ma si apriva (come la mano fraterna del presidente Higgins) verso quello spazio vuoto e sospeso che è diventata la casa di ciascuno di noi, che una casa l’abbiamo, ma anche del vuoto dei miserabili di ogni parte del mondo che una casa non l’hanno. C’è una parola che designa quei luoghi altri nei quali ci si riposiziona in una situazione di crisi, o nei quali si devia dal corso ordinario delle cose: eterotopia. E noi ferraresi dovremmo saperlo bene, perché una delle più straordinarie eterotopie non solo letterarie è il giardino dei Finzi-Contini. Come ha ben scritto un originale intellettuale, Raffaele K. Salinari, papa Francesco ha fatto di piazza San Pietro un’eterotopia. Là, in quella piazza, non c’era potere pastorale, non c’era pastore perché non c’era gregge: c’era un uomo anziano che si rivolgeva all’intera umanità. E che non cessa di ricordare la sofferenza di quelli che la crisi epidemica la patiscono più degli altri: il suo insistito richiamo alla figura universale del povero, come esemplificazione della condizione umana, ne è l’emblema.

Il terzo uomo paradossale è Bob Dylan. Che ha fatto una cosa come sempre inattesa e misteriosa, com’è nella sua multiforme e incomprensibile natura: non per caso, il film che meglio ha cercato di afferrarne la figura si intitola Io non sono qui. Mentre papa Bergoglio preparava la sua preghiera, Bob Dylan dopo 8 anni di silenzio ha pubblicato una nuova canzone: Murder Most Foul. Quando l’ha scritta, quando l’ha incisa? Chissà: a while back, si è limitato a dire. Perché? Perché potreste trovarla interessante, si è limitato a dire. Ma il saluto – Stay safe, stay observant and may God be with you – lascia pochi dubbi in proposito.
Nel 1971 David Bowie si rivolse al Bob Dylan che aveva smesso di scuotere le coscienze per ritirarsi in un enigmatico intimismo, a strange young man called Dylan With a voice like sand and glue, chiedendogli di restituirci le sue words of truthful vengeance: 50 anni dopo, Bob Dylan è tornato. Con una elegia funebre, un lungo lamento in morte del presidente Kennedy. Si dirà: parla ai suoi fan, parla agli americani (come Higgins agli irlandesi e Bergoglio ai cattolici). No: Bob Dylan sa bene che un grande scrittore ha la capacità di parlare dell’universale attraverso il particolare – sa che quanto più preciso è il dettaglio, tanto più il particolare si fa simbolo universale. E dopo aver descritto un crimine che, sul piano simbolico, genera un lutto inestinguibile, si rivolge a Wolfman Jack, il mitico DJ Lupo Solitario degli anni Sessanta (quello che interpretava se stesso in American Graffiti), e gli chiede di metter su un elenco di canzoni: chiede alla musica di esercitare il suo potere universale di consolare dal lutto, perché solo la musica ha questo potere. E di rendere, con la sua universalità, universale anche il lutto che è chiamata a consolare. La seconda parte della ballata diventa allora un lungo elenco di brani – c’è chi ha detto (e credo abbia ragione) che ci vorranno anni per riconoscere e decifrare tutti i riferimenti nascosti nel testo. A me ha colpito un verso “strano”: Play another one and Another one bites the dust. Wolfman Jack, metti su una canzone dei Queen, sembra dire: perché proprio i Queen, e perché proprio Another one bites the dust? Dico la mia. Questa canzone ha una particolarità, ha un ritmo di 110 battute, il che la rende ideale per insegnare il ritmo del massaggio cardiaco, che dev’essere compreso fra le 100 e le 120: e infatti è usata proprio per questo, negli ospedali americani. Come se con le stesse parole Bob chiedesse un’altra canzone, e al tempo stesso chiedesse di continuare il massaggio cardiaco, come nei film in cui sembra che il paziente sia ormai morto, ma c’è il dottore o la dottoressa che continua ancora, perché ancora ci crede: continua, forse riaprirà gli occhi, non fermarti, provaci ancora… Un’immensa pietà verso il morente, un’immensa capacità di credere nella dignità e nel prendersi cura della vita sofferente persino quando nulla lascia più pensare che sia possibile: è questo che, in meno di 10 parole (’Cos I’m a poet, don’t ya know it / And the wind, you can blow it / ’Cos I’m Mr. Dylan, the king / And I’m free as a bird on the wing), ci dice Bob Dylan, dislocando un evento del 1963 in un presente nel quale la vita stessa sembra in pericolo.

Tre uomini paradossali, accomunati da una evidente debolezza nel corpo segnato dagli anni che confligge con una forza d’animo inossidabile. Tre uomini che hanno il coraggio di guardare nell’abisso, senza timore che l’abisso guardi dentro di loro: senza diventare mostruosi, per aver guardato troppo a lungo il mostro.
Il covid-19 ci interroga, come già il mutamento climatico in atto, sulla nostra impreparazione davanti all’impensabile, e sulla nostra incapacità di accettarne l’esistenza. Il virus si rivolge a noi come specie – quindi a tutti: ma non colpisce tutti nello stesso modo. I letti dei poveri nei parcheggi degli hotel a 5 stelle vuoti a Las Vegas e le fosse comuni dei miserabili scavate a New York; le case di riposo per anziani trasformate in discariche e macelli; l’orrore dell’isola di Lesbo dove sono stipati i migranti imprigionati fra due continenti; le migrazioni apocalittiche degli sfollati dalle metropoli indiane sbarrate che non hanno una casa a cui fare ritorno, perché la loro terra è stata sommersa dall’Oceano: tutto questo ci mostra i segni di classe della sofferenza, del dolore, della morte.
Eppure il virus ha il potere di sbatterci in faccia una comune condizione: ora che il nostro unico contatto con i cari lontani è il telefonino, dovremmo forse capire perché il cellulare è così importante per i migranti. O forse no. Il covid-19 ci mette di fronte alla nostra incapacità di pensarci some specie umana: e ci costringe a chiederci quali divisioni, quali segmentazioni, volute da chi e perché, ci dividono in classi, razze, popoli, generi, fedi. È la spaventevole contraddizione dell’essere una specie, un’umanità, e non esserne all’altezza.
Parlare all’universale non vuol dire parlare a tutti: vuol dire rivolgersi a ciò che è la radice dell’umano, sapendo che fra gli umani ci sono quelli che questa radice la negano nel rifiuto del prendersi cura, del voler proteggere, del voler dare opportunità a questo o quello.

Alcuni dicono che alla fine ne usciremo migliori: non è affatto scontato che così sarà. Per riprendere il sempre acuto Aldo Bonomi, le parole dei tre uomini paradossali «ci interrogano intalpati nelle nostre case, dove si riscopre il piacere del fare il pane, mentre in basso manca il pane, ed in mezzo c’è la panificazione per i supermercati, che speriamo non diventino i forni di manzoniana memoria». L’assalto ai forni: si è chiamata in causa, quasi per riflesso condizionato, la malavita organizzata per una quindicina di abitanti dei ghetti di Palermo che non avevano i soldi per la spesa perché rimasti senza lavoro. Mi chiedo, e chiedo: lasciare in terra in un parcheggio i malati poveri di fronte ai casinò di lusso; continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbe essere usati per curare le persone e salvare vite; stringere le mani rapaci attorno al sacco dei denari e rifiutarsi di cedere una fetta del profitto a chi ha meno del meno: cos’è, se non mala vita organizzata?
Cominciamo a chiederci se vogliamo che dopo le cose rimangano così, o se vogliamo che ci sia pane per tutti. Perché rispondere significa anche chiedersi se vogliamo che la specie umana resti divisa fra chi avrà accesso a un vaccino, chi di fatto sarà escluso, e le grandi imprese farmaceutiche nel mezzo, a gestire la distribuzione in nome del profitto. O se vogliamo che il vaccino non sia prodotto dai mercanti della salute, ma dalla libera cooperazione dei ricercatori: che sia un vaccino senza steccati sovrani o nazionali, che sia di tutti e di nessuno – un vaccino del comune.

la seconda lettera è qui

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