Spettacoli
30 Marzo 2019
Il critico d'arte ha portato al Teatro Nuovo il terzo episodio della trilogia legata ai maestri del Rinascimento italiano

Leonardo secondo Vittorio Sgarbi

di Redazione | 4 min

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Più di tre ore di spettacolo, o meglio di lezione, per il pubblico che venerdì sera ha riempito il Teatro Nuovo di Ferrara per l’ultimo episodio della trilogia dedicata da Vittorio Sgarbi a tre giganti dell’arte italiana: Caravaggio, Michelangelo e Leonardo. Il critico d’arte, politico, opinionista e – perché no – uomo di spettacolo ferrarese continua la sua collaborazione con il progetto Doppiosenso di Valentino Corvino e Tommaso Arosio, che curano gli interventi musicali e gli effetti visuali, fra un capitolo e l’altro della narrazione. E non è detto che seguano altri lavori per narrare altri nomi e vite illustri della cultura italiana: il 2020 sarà l’anniversario della morte di Raffaello, 2021 Dante e 2022 Canova.

Cinque capitoli per celebrare anche con questo spettacolo il cinquecentenario della morte del multiforme genio toscano, morto nel 1519 appunto, seguendo la biografia che ha scritto il Vasari, mentre dietro Vittorio Sgarbi scorre una selezione delle sue molte opere.

Se di Caravaggio era stata esaltata la cifra neorealistica e di Michelangelo la capacità di sospendere il tempo, Leonardo viene esaltato come genio dell’imperfezione e dell’incompiutezza, ma soprattutto come “primo artista libero” e “primo pensatore puro”. “La pittura è cosa mentale” per Leonardo, “ciò che conta sono le idee”. Ecco il filo diretto con l’arte contemporanea del Novecento, le avanguardie, Dada e la Metafisica. “Leonardo è quello che ha messo in testa agli artisti che devono avere delle idee”, ironizza Sgarbi. “L’opera d’arte contiene anche il nostro spirito, che vive oltre la nostra morte”: ecco che “attraverso l’arte Leonardo continua la creazione di Dio”, “ci dà la certezza che dentro l’uomo c’è Dio”.

Ma se ciò che conta è l’idea, la perfezione mentale di quell’idea, la capacità di pensare opere grandiose irrealizzabili nella realtà, se la scintilla divina è nell’intuizione, allora la creazione è marginale, ecco perchè l’incompiutezza: “non portava mai a compimento nulla e la sua volontà era di dare il segno che un’impresa si poteva compiere ma era inutile portarla a compimento”.
Dal primo angelo dipinto mentre è ancora ‘a mestiere’ nella bottega di Verrocchio – e il confronto farà decidere al suo maestro di dedicarsi solo alla scultura – agli anni milanesi: la Dama con l’Ermellino, che esclude chiunque dal suo sguardo perchè non ha occhi che per il suo amato, Ludovico il Moro, messa a confronto con l’Annunciata di Antonello da Messina, che ci tiene lontani per proteggere ciò che porta dentro di sé; l’Uomo vitruviano, “la perfetta corrispondenza fra uomo e architettura” che poi arriverà a compimento con i progetti di Le Corbusier; e poi quell’Ultima cena dipinta a secco e quindi “ormai una sindone di ciò che è stata”, dimostrazione di quanto la perfezione dell’ opera immaginata viene tradita da una mano incapace di tradurre fedelmente l’immagine mentale. Infine lei, la Gioconda: non un ritratto ma “l’idea di un ritratto”. Leonardo “ci ha messo quattro anni per lasciarlo ancora una volta incompiuto”, “l’essenza della sua visione”, “una persona viva qui e ora, questo è il senso del suo sorriso: il piacere della vita”.

E, come è nel suo stile, Sgarbi ironizza senza molti giri di parole su quanti, pur ritenuti grandi critici, hanno rinvenuto dettagli o opere leonardesche impossibili da attribuire al suo genio creativo. Infine, c’è spazio anche per un prologo-ringraziamento alla sua città, Ferrara: “Prima città moderna”, come l’ha definita Burckhardt, “città infinita e perfetta, che gode nel silenzio della sua nebbia”, con il campanile di Leon Battista Alberti: “Non esiste città in Italia con un campanile più bello del nostro”. Una “città gravida di futuro”, l’ha definita Sgarbi. “La cosa più straordinaria di Ferrara” però non è il Castello, non è il Duomo con il suo campanile, è “il pinguino di Bida, mangiato per la prima volta nel 1959”. “Forse anche Leonardo c’è stato, in tempo per vedere i cantieri di Biagio Rossetti. Diverso perché capace e non incapace come Leonardo, perché costruttore e non distruttore come Lonardo. Simile era il loro sogno, i due si sarebbero piaciuti”.

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