Cronaca
30 Giugno 2011
Nel libro di Manconi tredici storie di vite, e morti, affidate allo Stato

La ballata di Aldro e gli altri

di Redazione | 4 min

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La fine, terribile, di Katiuscia Favero, morta nell’opg di Castiglione delle Stiviere, ha per prima dato voce alle tredici storie raccontate dal volume “Quando hanno aperto la cella” di Luigi Manconi e Valentina Calderone, presentato ieri pomeriggio alla libreria Melbookstore. Tredici vicende esemplificative delle tante accomunate da troppe domande senza risposta, da incongruenze, da fiumi di dubbi e contraddizioni: denominatori comuni ai casi di persone morte in situazioni in cui erano affidate allo Stato.

“Queste persone avrebbero dovuto essere tutelate dallo Stato: qualcosa non ha funzionato – ha introdotto il coordinatore Pietro Pinna di Arci Ferrara -. E’ necessario però continuare a parlarne. Anche a Ferrara è successo, con il caso di Federico Aldrovrandi, su cui non è ancora stata scritta la parola ‘fine’: a sei anni da allora dobbiamo ancora interrogarci su cosa è stato fatto e cosa no. Se succedesse di nuovo, siamo sicuri che saremo pronti a reagire?”.

Non ha avuto risposte Paolo Boldrini, direttore de La Nuova Ferrara, ma ha potuto testimoniare il coraggio e la tenacia della madre di Federico, avendone seguito la storia, e la difficoltà di fare emergere la verità in determinati frangenti. Il quotidiano ferrarese è stato rinviato a giudizio, con Patrizia Moretti e il direttore di estense.com Marco Zavagli, con l’accusa di diffamazione aggravata nei confronti del magistrato Mariaemanuela Guerra.

Del libro, di cui sono stati letti passi da Fabio Mangolini, hanno parlato i veri ispiratori: i familiari di Federico, di Stefano Cucchi e di Aldo Bianzino.

“Quest’opera è importante – ha spiegato Patrizia Moretti – perché i suoi autori vogliono parlare ai giovani. Queste storie hanno una storicità terribile e negli ultimi anni la loro frequenza è altissima, forse anche per la maggiore, pur difficile, informazione. E’ ora di cambiare. Guardiamo al futuro. Rivolgiamoci ai ragazzi: è l’unica possibilità per migliorare e consegnare loro una realtà diversa. Nel nome di Federico voglio che non accadano mai più queste cose, in cui si riconosce una traccia comune: la non cultura oppressiva, che non conoscevo sino a quando non l’ho incontrata. Questo libro può aprirci gli occhi”.

Le ha fatto eco Ilaria Cucchi. “Quelle raccontate sono solo alcune delle tante vicende che accadono nel silenzio. Il libro le vuole riportare alla luce. A volte mi sento quasi in colpa verso le altre famiglie che non hanno avuto risposte. Ci sono persone – ha riflettuto – che non pensano come anche i cosiddetti ultimi siano e abbiano degli affetti”. E ha concluso: “Sono grata a Ferrara e a Patrizia e Lino, perché il loro dolore e il sacrificio di Federico è servito a noi e ad altri ad avere la forza di denunciare”.

Ha sottolineato il valore dell’informazione il 17enne Rudra Bianzino, che ha perduto il padre a 14 anni. “Vi siete mai chiesti perché la nostra si chiama battaglia? Perché si lotti contro le istituzioni cui ci si dovrebbe affidare? Quelle riportate nel volume sono più di storie: ogni pagina racconta sofferenza e ciò che può accadere ad ognuno di noi. E’ certo che è ora di cambiare: di cercare una soluzione. A noi nessuno restituirà i nostri cari, ma dobbiamo lottare per la verità, per noi e per chi verrà”.

L’autore Luigi Manconi ha tenuto a ringraziare Patrizia, Ilaria e Rudra e, con loro, gli ‘altri’. “Non ho mai sentito parlare i familiari di vendetta – ha rimarcato –, ma esprimere la sola richiesta di verità e giustizia, tanto più significativa in quanto rivolta allo Stato, verso il quale resta una residuale fiducia, malgrado ne abbiano subito l’oltraggio più crudele”.

Manconi ne ha tratto una riflessione sociologica e giuridica. “La vita di una persona, soprattutto quando si trovi nelle mani dello Stato, in carcere, in ospedale, in una via, è sacra, perché lo Stato è tale dal momento che fonda la sua legittimazione giuridica e morale sulla garanzia dell’incolumità di chi sta nella sua custodia. Nei casi Aldrovrandi, Cucchi, Bianzino e in tanti altri lo Stato non ha assicurato questa incolumità. L’azione dei familiari è dunque fra i contributi più preziosi al nostro sistema di valori, perché affermano la base etica di legittimazione del nostro ordinamento”. Fra i temi anche il ruolo decisivo della comunicazione e il ruolo di noi tutti. “Queste vittime sono come noi: rimuovere è autolesionistico. Queste storie hanno dei protagonisti terribilmente simili a noi: guai a dire che queste cose non ci riguardano”.

Si è soffermata sulle famiglie Valentina Calderone. “Esse sono accomunate da similitudini inquietanti, prima e dopo la morte dei loro congiunti. Non hanno potuto vivere il lutto, ma si sono dovute destreggiare fra mille impedimenti per raggiungere la verità, trasformando la loro battaglia in una risorsa collettiva. La loro è una prova di forza e coraggio, che va sostenuta. Pensiamo, infine,  a quanto meno possano essere garantite le persone sole”.

Per troppi, come nella Ballata del Miché di Fabrizio De André, “Quando hanno aperto la cella era già tardi…”.

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