Cronaca
14 Agosto 2023
Nessuna delle ipotesi accusatorie formulate dalla Guardia di Finanza ha trovato riscontro. A meno di sorprese, la storia penale dell'ex Cassa di Risparmio si chiuderà così

Carife, la Procura chiede nove archiviazioni per la bancarotta

di Redazione | 5 min

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Finisce con la richiesta di archiviazione per i nove indagati rimasti, l’indagine finale per bancarotta che aveva come focus la gestione della Cassa di Risparmio di Ferrara negli anni prima del crac.

È quanto ha chiesto la Procura di Ferrara nei confronti degli ex direttori generali Gennaro Murolo e Daniele Forin, dell’ex presidente Sergio Lenzi, degli ex funzionari Davide Filippini e Michele Sette, del responsabile società revisione Deloitte&Touche Michele Masini, e degli ex rappresentanti di CariCesena Adriano Gentili, Germano Lucchi e Maurizio Teodorani.

Per i sostituti procuratori Stefano Longhi e Barbara Cavallo, titolari del fascicolo di indagine che si è concentrato sulla gestione di Carife nei suoi ultimi anni di vita ‘indipendente’, prima del commissariamento da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze su proposta della Banca d’Italia nel maggio 2013, i nove – almeno sotto il profilo penale – non sono da considerarsi responsabili per lo stato di dissesto che ha portato prima allo scioglimento degli organi di amministrazione da parte di Bankitalia, fino al crac del 2015 e alla dichiarazione dello stato d’insolvenza certificato dalla sentenza del tribunale di Ferrara del 10 febbraio 2016.

Nessuna delle ipotesi accusatorie formulate dalla Guardia di Finanza infatti, alla fine, ha trovato riscontro: in parte per errori di valutazione da parte degli investigatori, ma anche perché il declino della banca è nato anche da un cambio di regole di controllo a livello europeo, divenute molto più stringenti, a seguito della crisi di quegli anni. Ma non solo: alla luce dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, che richiede ora una ragionevole previsione di condanna, la Procura constata che non c’è abbastanza materiale per contestare condotte penalmente rilevanti a nessuno degli ex amministratori di Carife.

Per i pm non ha così alcun fondamento l’ipotesi di falso in bilancio di tipo valutativo (e conseguenti false comunicazioni sociali) legata alle valutazioni sulle società partecipate e controllate da Carife, vale a dire “Banca di Nord Est Spa”, “Commercio e Finanza”, “Banca di Treviso Spa”, “Banca Popolare di Roma Spa”, “Banca Modenese Spa”, “Banca di Credito e Risparmio della Romagna Spa”, “Finproget Spa” e “Carife Sei Srl”. Per gli inquirenti la Cassa ferrarese, dal 2008 al 2012, aveva costantemente sopravvalutato le partecipazioni indicate nei bilanci di Carife, in modo da nascondere uno stato di predissesto ai soci, nascondendo perdite da quasi 50 milioni di euro nel 2008 fino a oltre 87 milioni nel 2011 (solo 1,2 milioni nel 2012). Ma la consulenza tecnica chiesta al professor Giuliano Iannotta della Cattolica di Milano ha smontato tutto il castello accusatorio: l’errore valutativo, in sostanza, è stato fatto dagli inquirenti che non hanno considerato alcuni necessari criteri nell’effettuare le loro stime. Alla fine la Procura conclude, sottolineando “la sostanziale inconsistenza dell’ipotesi d’accusa sostenuta dall’organo di polizia giudiziaria“. Gli scostamenti rilevati sono tutti sotto la soglia di punibilità dal punto di vista penale (importi sempre superiori all’1% del patrimonio netto e per importi sempre superiori al 10% della valutazione estimativa corretta).

Nessun reato riconducibile alla bancarotta nemmeno nella vicenda Siano-Vegagest, che riguarda la famigerata operazione immobiliare in cui l’ex direttore generale Gennaro Murolo infilò Carife, esponendola per 150 milioni di euro: quella “Milano Santa Monica” a Segate e quella “Calatrava” a  Milano. La vicenda – rilevano i pm – ha visto Murolo condannato in primo grado per truffa, poi assolto in appello, assoluzione rimandata dalla Cassazione e poi tutto si è chiuso con la prescrizione, per cui è “giudizialmente accertata la condotta truffaldina originariamente contestata”.

Quella vicenda lasciò strascichi pesantissimi nelle gestioni successive legati a finanziamenti e mutui sottoscritti con la CariCesena. Per la Procura di Ferrara, però, Forin, Lenzi, Filippini, Sette, Gentili, Lucchi, Teodorani non hanno colpe, essendo venuti a conoscenza solo nel 2010 di tali affidamenti sottoscritti con CariCesena e da lì in poi, anche in base a pareri di esperti esterni, hanno in fin dei conti solo tentato di cercare di limitare i danni. E nonostante tutto, nemmeno Murolo può essere chiamato a rispondere per la bancarotta: le sue azioni sono troppo distanti dal crac e, in ogni caso, non hanno causato uno stato di dissesto giudicato irrecuperabile nemmeno dagli organi di vigilanza.

Altro importante aspetto oggetto di indagine riguarda la gestione dei finanziamenti e dei cosiddetti “crediti anomali” concessi da Carife a “Sgr Vegagest”, “Banca Modenese”, “Gruppo Acquamarcia”, “Gruppo Deiulemar” e “Gruppo Mascellani”, che per la Finanza avrebbero integrato una bancarotta fraudolenta per distrazione o dissipazione, avendo depauperato la banca. In realtà, dicono i pm, nessuna di tali operazioni ha integrato condotte distrattive o dissipative del patrimonio bancario. Lo stesso vale per il reato di riciclaggio.

La Guardia di Finanza si era concentrata anche sull’aumento di capitale, già oggetto di un primo procedimento, concluso definitivamente: le condanne in primo grado per Lenzi e Forin sono terminate con la prescrizione per Lenzi e la condanna che è rimasta per il solo Forin. Gli inquirenti contestavano la proposta di prestiti obbligazionari a tassi d’interesse particolarmente vantaggiosi diretti alla propria clientela, contestualmente alle operazioni di aumento di capitale. Per la Procura si trattò di operazioni del tutto legittime, non tese a distrarre o depauperare il patrimonio.

Legittima fu inoltre l’operazione con la finanziaria FinPosillipo che sottoscrisse l’aumento di capitale di Carife acquistando 5 milioni di euro di titoli di nuova emissione. Per gli inquirenti, che consideravano l’operazione una “simulazione”, qui si sarebbero configurati tanti reati: dall’aggiotaggio all’ostacolo alla vigilanza fino alla bancarotta fraudolenta. Ipotesi “infondate“, scrive la Procura. Di fatto fu un’operazione fatta per fare un favore a Carife, che “salvòin passato la finanziaria, con l’impegno di dare libertà a FinPosillipo di rivendere le azioni sul mercato in un momento successivo. Cosa che poi avvenne in maniera del tutto regolare. Operazione, peraltro, nata anche per evitare che la Fondazione Carife dovesse intervenire nell’aumento di capitale che si era impegnata a sottoscrivere per la quota rimasta non coperta dalla raccolta ordinaria.

L’ultimo passaggio riguarda infine l’acquisto delle azioni “Carife” da parte di “Finanziaria Gruppo Tomasi” per 5 milioni di euro che avvenne contestualmente a un finanziamento di pari importo da parte della banca. E anche in questo caso “invero, la condotta di acquisto delle azioni ‘Carife’ da parte di F.G.T.” per l’importo di 5.000.000 euro non può dirsi simulata né, più genericamente, artificiosa, per la banale ragione che le azioni di ‘Carife’ sono state effettivamente acquistate dalla società sottoscrittrice. L’acquisto in questione ha dunque contribuito al rafforzamento patrimoniale della banca, il cui capitale sociale e regolamentare è stato effettivamente implementato”. Insomma, tutto regolare, nessun reato.

A meno di sorprese da parte del giudice per le indagini preliminari, la storia penale di Carife si chiuderà qui.

 

 

 

 

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