Finanza & Mercati
17 Gennaio 2023
L’annus horribilis di Apple racconta molto più di una semplice battuta di arresto dell’azienda di Cupertino; dimostra che qualcosa non va nella supply chain e forse è ora di cambiare

La mela avvelenata

di Redazione | 3 min

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di Edoardo Righini

Se in passato ci avessero detto che la Apple avrebbe chiuso con un segno negativo il proprio anno, difficilmente ci avremmo creduto.

Del resto, l’azienda di Cupertino è stata in questi anni un vero e proprio faro per le imprese tech mondiali e bilanci e vendite stanno lì a dimostrarlo.

Merito di una capacità rivoluzionaria di presentarsi sul mercato, di alcune intuizioni progettuali, di una user experience decisamente brillante e del fascino magnetico e conturbante del suo fondatore, Steve Jobs.

Tuttavia, l’astro dell’azienda con la mela sembra aver perso da un po’ il proprio splendore.

La morte di Steve Jobs, il vuoto di carisma percepito dagli investitori, l’accoglienza sempre più tiepida da parte dei consumatori rispetto ai nuovi prodotti, i prezzi costantemente in rialzo, l’impressione di potersi rivolgere a competitor decisamente più avanzati tecnologicamente ma meno costosi: tutti questi sono stati fattori che, uno dopo l’altro, hanno iniziato a far vacillare la tenuta aziendale di Apple.

Come se non bastasse, è arrivato il Covid, che certamente ha colpito tutti i paesi del mondo, ma uno più di altri: la Cina.

Ed è proprio la Cina ad essersi rivelata il tallone d’Achille del gigante americano.

A causa della perdurante pandemia e della politica 0 Covid adottata da Pechino, la Apple si è trovata infatti in grossa difficoltà nella gestione della catena di rifornimenti, visto che la quasi totalità dei propri prodotti viene assemblata proprio in Cina.

Questo ha portato l’azienda, secondo alcune fonti anonime ma citate da tutte le testate specialistiche, a chiedere ai fornitori di produrre meno parti per i suoi auricolari, orologi e laptop, anche a fronte dell’inflazione galoppante, che ridurrebbe la domanda di smartphone di alta fasca per il 2023.

Unite tutto e il risultato è facilmente immaginabile.

Il 3 gennaio il titolo subisce un tonfo pauroso in termini di valore, passando dai 3.000 miliardi di dollari dell’anno scorso agli attuali 2.000 miliardi di dollari.

Si aggiunga che delle debolezze finanziarie si erano già mostrate nel corso del 2022, anno in cui il valore delle azioni Apple si è ridotto del 27%.

Sebbene il contesto sia complesso, la vicenda offre l’occasione per fare una riflessione su alcune scelte strategiche che molte aziende hanno messo in campo in questi anni, Apple compresa.

Spesso, le aziende hanno portato all’estero interi rami produttivi, scegliendo fornitori e manodopera stranieri, anche in territori molto distanti, per ridurre il costo del lavoro e sfruttare legislazioni (eccessivamente) favorevoli.

Se questo le ha ripagate in termini di bilanci, ha reso le stesse aziende quasi totalmente dipendenti da paesi lontani e opachi dal punto di vista istituzionale, cosa che in un contesto di crisi ha impedito una rapida riorganizzazione che permettesse di adattarsi ai rapidi cambiamenti intercorsi negli ultimi mesi.

Un po’ come è accaduto all’Europa con il gas russo: perso il fornitore principale, lo shock economico è stato micidiale e ha richiesto a tutte le nazioni un ripensamento della propria strategia energetica.

Probabilmente al tramonto della globalizzazione, come la indicano molti esperti, sarebbe bene che Apple, e non solo, riconsiderasse una strategia di produzione in modo da preferire l’affidabilità al risparmio e la resilienza organizzativa all’opacità accomodante.

Supply chain enormi, lontane e complesse finiscono per diventare un’ancora se il mare è in tempesta.

La risposta non è l’autarchia, ovviamente. Ma forse è finalmente arrivato il momento di smettere di privilegiare il cieco profitto e iniziare a perseguire il sostenibile (e più affidabile) valore di relazioni produttive consapevoli così da liberarsi da logiche di mercato unicamente rapaci.

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