Tresignana. Emergono nuovi dettagli su uno dei più efferati delitti compiuti in provincia di Ferrara, il duplice omicidio dei cugini Dario e Riccardo Benazzi avvenuto il 28 febbraio 2021, e per il quale sui due unici indagati da procura e carabinieri, Filippo e Manuel Mazzoni, padre e figlio, due diversi giudici – il gip di Ferrara e il tribunale delle libertà di Bologna – hanno stabilito che, allo stato, oltre un anno dopo i fatti, non ci sono nemmeno i gravi indizi di colpevolezza.
I motivi stanno in un’auto che si sposta, in testimonianze che non combaciano, in una fotografia, nei dati delle celle telefoniche, nella registrazione del Telesystem, in un’arma del delitto che non si trova e non coincide con quelle trovate in casa degli indagati, nell’assenza di tracce di qualsiasi tipo nelle cose dei Mazzoni, in un ipotizzato movente molto poco convincente.
Un’auto che si sposta. Quel 28 febbraio, tra le 11,30 e mezzogiorno, un testimone vede il riflesso del vetro di un’auto a distanza di circa 6-700 metri. Dice che si trova ferma, dietro un pioppo, in aperta campagna, vicino al cimitero di Final di Rero. Non ci fa troppo caso perché pensa che siano dei pescatori. Sempre lo stesso testimone, alle 14, vede la sagoma di un’autovettura, ma in una posizione diversa, sempre nei pressi del pioppo, ma questa volta davanti a esso. A quest’ora i Mazzoni sono sicuramente al mare. Un altro testimone passa da quelle parti con il proprio cane, passa vicino all’auto, afferma che sia molto bassa e soprattutto carica di pezzi di legno e stracci. È la Volkswagen Polo di Riccardo Benazzi, sotto quella legna e quegli stracci giacciono i corpi straziati dei due cugini. Alle 20,30 un uomo vede un incendio a distanza, alle 21 chiama i vigili del fuoco perché le fiamme sono alte. In questa fase i cellulari dei Mazzoni agganciano la cella vicina alla loro abitazione e solo per qualche attimo agganciano quella al confine, verso l’incendio: la spiegazione data è che, avendo visto le fiamme, sono usciti e si sono mossi per qualche centinaio di metri per vedere cosa stava accadendo, poi sono tornati indietro.
I colpi di fucile e una fotografia. Altri elementi che non combaciano nell’ipotesi accusatoria, valorizzati dai giudici, arrivano da altre testimonianze – uditive potremmo dire – sui colpi di fucile. Un teste dice di aver sentito almeno 4 o 5 colpi al mattino, che non ci ha fatto troppo caso perché pensa siano cacciatori di nutrie che in quei giorni erano attivi. Ma il tempo in cui colloca gli spari è successivo a un orario in cui è certo che i Benazzi fossero ancora vivi. Perché? Perché c’è una foto digitale, scattata dal proprietario del fondo in cui Riccardo aveva costruito il prototipo di impianto eolico, in cui uno dei due cugini mostra il permesso concesso dal curatore fallimentare di entrare nel terreno per smontare le strutture. L’ora è le 10,42.
Un secondo testimone di colpi ne sente tre – tre come quelli che hanno raggiunto le vittime – ma in un orario tra le 12,30 e le 13. Per i giudici del riesame è probabile che questa sia l’ora del delitto. Dov’erano i Mazzoni? Alle 12,15 una telecamere del Telesystem di Migliarino li inquadra mentre viaggiano in direzione mare. Per arrivare fin lì dalla loro abitazione ci vogliono circa quattro minuti, quindi è verosimile che siano andati via verso le 12,10. Alle 13.03 i loro cellulari agganciano le celle telefoniche di Comacchio, dove rimarranno fino a sera.
Le borre e le tracce che mancano. Gli inquirenti trovano sul luogo del delitto due borre marca Baschieri&Pellagri. Sono particolari perché usate per lo skeet, il tiro al piattello, ma anche per la produzione ‘casalinga’ di cartucce. In casa dei Mazzoni non v’è traccia di altre munizioni simili e tutte le armi sequestrate e analizzate sicuramente non hanno sparato. Non solo: nel corpo e negli indumenti degli indagati non vi sono tracce di polvere da sparo, né tra indumenti, tappetini dell’auto, e altri oggetti sequestrati v sono tracce biologiche riconducibili ai Benazzi. I fucili e le armi in loro possesso, regolarmente detenute, erano insuate da tempo. Non c’è nulla.
Le intercettazioni. Nemmeno le intercettazioni forniscono alcun indizio: è vero che non parlano dell’accaduto al telefono, ma è anche vero che lo fanno su consiglio del loro avvocato che li avverte che i loro colloquio sono sicuramente monitorati. E quando parlano, convinti di essere lontani da orecchie e occhi indiscreti, lo fanno nella loro auto, dove i carabinieri hanno però messo una cimice. È agosto, ma mostrano di non essere a conoscenza nemmeno di quello che sa e pubblica la stampa: Manuel si chiede perché li indaghino visto che loro hanno armi militari, che mica fanno buchi così piccoli. Non sa quel che tutti sanno già: che i Benazzi sono stati raggiunti da pallettoni calibro 12 e i “buchi” non sono affatto piccoli.
Un’oca come movente. Anche il movente ipotizzato dagli inquirenti non convince i giudici: un’oca dei Mazzoni ferita tempo addietro da Riccardo Benazzi non sembra davvero sufficiente a giustificare l’uccisione di due uomini a sangue freddo, fucilati a distanza non superiore a 5 metri e comunque non inferiore a 10, come rileva l’autopsia.
E allora, se l’ora del delitto è quella compresa tra le 12,30 e le 13, è verosimile che siano stati i Mazzoni? In base a quello che si sa, e finora anche i provvedimenti dei giudici sembrano andare inequivocabilmente in questa direzione, sembra molto difficile affermarlo, anche perché in pochissimo tempo avrebbero dovuto spostare due pesanti cadaveri, sporcarsi in qualche modo – i due corpi sono stati pesantemente lesionati soprattutto dai colpi alla testa – e disfarsi di ogni traccia con una meticolosità che appare quasi soprannaturale, in grado di sfuggire anche al fiuto dei cani molecolari. O è un delitto perfetto, oppure mancano degli indagati all’appello.
“Adesso aspettiamo cosa deciderà di fare la procura – commenta l’avvocato Stefano Marangoni che assiste gli indagati -. Ma se non sarà la pm a chiedere l’archiviazione, lo farò io”.
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