Operazione dei carabinieri nel Portuense. Accertato il reclutamento illecito di oltre 100 operai di origine pachistana. Sequestrati beni per 80mila euro (VIDEO)
Caporalato, arrestati tre sfruttatori e perquisiti 23 imprenditori agricoli
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Reclutavano loro connazionali di origine pachistana per sfruttarli come lavoratori agricoli con la compiacenza di numerosi imprenditori della provincia ferrarese e di altre quattro province tra Emilia-Romagna e Veneto. Una complessa operazione dei carabinieri sul caporalato nel Portuense ha portato giovedì 7 aprile all’arresto di tre sfruttatori e alla denuncia di 23 imprenditori di 18 aziende agricole, con sequestro di beni degli arrestati per 80mila euro, dopo aver documentato in circa due anni di indagini il reclutamento illecito di oltre 100 lavoratori.
L’operazione, eseguita dai militari del Norm di Portomaggiore assieme al Gruppo Carabinieri Tutela Lavoro di Venezia (con l’apporto dell’Ispettorato del Lavoro di Ferrara), è giunta al suo culmine proprio il 7 aprile, quando a Portomaggiore e in varie località nelle province di Ferrara, Rovigo, Padova, Venezia e Ravenna, si è data esecuzione all’ordinanza cautelare a carico dei tre cittadini pachistani, domiciliati nel Portuense, per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (il cosiddetto ‘caporalato’ previsto dall’articolo 603 bis del Codice Penale) aggravato dall’uso della violenza e delle minacce.
Il bacino di reclutamento si trovava proprio nel Portuense, dove i tre arrestati (fra loro imparentati) avevano messo in piedi un’organizzazione ben radicata e attrezzata, con tanto di furgoni per il trasporto dei lavoratori (ne sono stati sequestrati 10), approfittando dello stato di bisogno dei propri connazionali per destinarli al lavoro in aziende agricole i cui imprenditori, secondo l’accusa, sarebbero stati ben consapevoli del loro sfruttamento. Si parla di 4 euro all’ora che andavano al lavoratore (la parte in regola) e dai 6 agli 8 euro che finivano invece in nero nelle mani dei caporali. E per i lavoratori sfruttati non c’era modo di ribellarsi, pena la perdita del lavoro e spesso l'”opera di convincimento” attraverso botte e minacce.
L’indagine è partita infatti dopo una violenta rissa verificatasi a Portomaggiore nell’ottobre del 2020, durante la quale i tre arrestati avevano sedato con la violenza le rimostranze di alcuni lavoratori. Quella notte furono coinvolte una quindicina di persone, alcune delle quali rimasero ferite gravemente a causa dell’uso di spranghe e cocci di vetro, mentre altre vittime trovarono rifugio nella caserma dei Carabinieri di Portomaggiore. Le indagini successive scoprirono che uno dei ‘ribelli’ aveva ‘osato’ manifestare l’intenzione di andarsene presso un’azienda che l’avrebbe messo in regola e di convincere anche altri connazionali a seguirlo ed è da questo che è partita una spedizione punitiva nel centro di Portomaggiore proprio mentre alcuni pachistani si trovavano dai Carabinieri per denunciare la propria condizione di sfruttati. Il giorno successivo i tre sfruttatori, per giustificare le lesioni, si erano recati a loro volta dai carabinieri per denunciare l'”aggressione”, ed è per questo che dovranno rispondere anche dei reati di rissa e calunnia.
Gli approfondimenti investigativi, articolati su due anni di osservazioni, pedinamenti, registrazioni e attività tecniche, hanno potuto documentare l’operato dell’organizzazione e come la condotta si protraesse dal 2018 senza soluzione di continuità fino ad oggi. Il reclutamento e l’impiego dei lavoratori non avveniva occasionalmente ma sfruttando una struttura organizzativa che prevedeva l’impiego di mezzi per il trasporto (che avveniva dalle 4 alle 6 del mattino senza che i lavoratori conoscessero in anticipo la destinazione), la cura di tutti gli aspetti tecnico pratici del lavoro, il trattinimento di una grande percentuale dello stipendio degli operai. il tutto si reggeva sullo sfruttamento dello stato di bisogno dei lavoratori, la loro sottomissione con umiliazioni, violenze e minacce, associati alla violazione delle normative sulla sicurezza e dei diritti degli operai.
Gli imprenditori agricoli, tutti italiani (una decina quelli della provincia di Ferrara), secondo le risultanze delle indagini sarebbero stati perfettamente a conoscenza della procedura illecita, in quanto quotidianamente si accordavano con i ‘caporali’ per il reclutamento del numero di operai di cui necessitavano, tenendo contatti con loro a cui effettuavano i pagamenti. Anche nei pochi casi in cui venivano formalizzati i contratti, piccole parti di stipendio venivano necessariamento pagate con bonifico ma tutto veniva sempre gestito dal sodalizio con l’imprenditore che da un lato effettuava il bonifico sull’Iban fornito dagli arrestati e dall’altro consegnava denaro contante in nero. Fra i beni sequestrati, oltre ai 10 veicoli utilizzati per il trasporto degli operai, figurano anche due appartamenti, due conti correnti e varie carte di credito utilizzate per i pagamenti irregolari.
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