Politica
19 Novembre 2020
I fatti sono risalenti. Il vicesindaco della Lega Nicola Lodi non volle pagare per nove mesi consecutivi. Il giudice: “Ha agito per motivo di lucro”

Dal passato giudiziario di Naomo spunta un’altra condanna: non versò i contributi ai dipendenti

di Marco Zavagli | 3 min

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Il vicesindaco Nicola Lodi

Spunta un’altra condanna dal lungo passato giudiziario dell’attuale vicesindaco di Ferrara Nicola ‘Naomo’ Lodi. Una condanna per omesso versamento dei contributi dei suoi dipendenti.

Si tratta di una vicenda risalente. La violazione che veniva contestata a Naomo era quella dell’articolo 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983, oggi depenalizzato in sanzione amministrativa per soglie annuali inferiori a 10mila euro (questo il motivo per cui non compare nel suo pur nutrito casellario).

Da marzo a novembre 2006, per nove mesi consecutivi, Lodi “in esecuzione di un medesimo disegno criminoso – recitava il capo di imputazione -, ometteva il versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei propri dipendenti”.

A quell’epoca l’esponente della Lega era titolare del salone “Acconciature Nicola”, in via Foro Boario a Ferrara. Davanti al giudice Franco Attinà, Lodi sostenne di aver corrisposto tutto quanto dovuto. La documentazione acquisita dalla procura e le dichiarazioni di una dipendente dell’Inps lo smentirono immediatamente.

Il 5 luglio 2012 arriva la condanna del tribunale di Ferrara: due mesi e 10 giorni di reclusione e mille euro di multa, oltre alle spese processuali. Il giudice si dimostra ottimista e concede la “sospensione condizionale della pena”, dal momento che ritiene che “le condizioni soggettive dell’imputato non precludono una prognosi favorevole quanto al futuro”.

Naomo ricorre in appello. Ma la difesa è debole. Il suo avvocato contesta il fatto che non vi fosse prova del pagamento delle retribuzioni. Quindi, se non era stato pagato lo stipendio, nemmeno potevano esser stati pagati i contributi. In secondo luogo il difensore di Lodi chiedeva una pena inferiore.

Il primo motivo viene immediatamente tacitato dalla Corte, che fa notare come fosse stato “lo stesso imputato ad attestare negli appositi modelli di aver versato le retribuzioni”.

Quanto al trattamento sanzionatorio, “le modalità (nove mesi consecutivi di omessi versamenti), la gravità del danno cagionato, l’intensità del dolo e dei motivi del delinquere (l’imputato ha evidentemente agito per motivi di lucro), nonché la personalità dell’imputato, valutata anche alla luce dei precedenti penali, sono tutti elementi che consentono di condividere la pena così come inflitta in primo grado”.

Infine la corte di appello si fa anche profetica, sostenendo che non può accogliere ulteriori benefici oltre alla già ottenuta sospensione condizionale, “in considerazione della non incensuratezza dell’imputato e della gravità del fatto commesso, ritenendosi, peraltro, che la concessione del beneficio della non menzione non favorisca il ravvedimento dell’imputato ed, anzi, abbia l’effetto contrario”.

La sentenza arriva il 10 gennaio 2014. I giudici Giovanni De Giorgio, Domenico Stigliano, Margherita Chiappelli confermano la condanna.

Naomo non si arrende e propone ricorso anche in Cassazione, davanti alla VII sezione penale, presidente Aldo Fiale, relatore Silvio Amoresando) denunciando l’omessa declaratoria di prescrizione. Lodi chiede l’assoluzione sostenendo che nel frattempo, dal momento del compimento del reato è ormai intervenuta la mannaia della prescrizione.

Ma la mannaia la sollevano gli ermellini. La Cassazione spiega che il reato compiuto da Naomo ha natura omissiva e si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento delle ritenute. E tale termine non era ancora maturato al momento dell’emissione della sentenza di appello per nessuna delle violazioni contestate.

Il 14 novembre 2014 il ricorso viene quindi dichiarato inammissibile, con condanna di Lodi al pagamento delle spese processuali e al versamento di altri mille euro alla cassa delle ammende.

Il giudizio, ormai definitivo, si conclude con la beffa: l’inammissibilità del ricorso preclude poi la possibilità di dichiarare l’intervenuta prescrizione dopo l’emissione della sentenza impugnata.

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