Mesola
10 Dicembre 2019

Il Gran Bosco della Mesola e diritti di legnatico

di Redazione | 4 min

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Vedere il miserrimo stato vegetativo del nostro “boscone”, a causa dei recenti avversi eventi meteo, ma anche per conclamati errori di conduzione, fa veramente stringere il cuore, se confrontato con quanto riportato nella monografia edita per i tipi di “Conegliano – Stabilimento di Arti Grafiche -1923”, a cura della direzione della Società per la Bonifica dei Terreni Ferraresi, all’epoca proprietaria del Tenimento di Mesola, nel quale ricadeva la foresta, oggi di proprietà dell’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali e nella cura dei Carabinieri Forestali.

Vedere in decomposizione migliaia di metri cubi di legname, ivi comprese anche quelle ricadenti in oltre un quinto della superficie vincolata arrogantemente a R.N.I. con DM 26/07/71, è sconsolante per chi ha ricordi infantili della magnificenza del bosco.

La S.B.T.F., aveva acquisito, nel 1919, la proprietà della foresta; la prima grande guerra si era appena conclusa con una “vittoria mutilata” e gravi danni all’impianto boschivo, a causa di prelievi di legname per gli usi bellici oltre che per il riscaldamento delle povere case degli abitanti locali.

Nella monografia citata, si legge, tra l’altro:

Il boscone lasciato a sé, poiché le forze della natura, sono immense, sta risorgendo!”

E più avanti dichiarava:

”Tali ripulimenti fatti con opere ad interessenza, che molte si trovano intelligenti ed amanti del bosco, provvede un utile non indifferente alla proprietà, oltre di fornire di ottima legna le popolazioni finitime.

Lo dimostra il fatto che nell’inverno 1920-21 furono raccolte fascine in sorte n. 28.427 e nell’inverno 1921-22 circa n. 52.600.”

E conclude:

Il bosco ora non richiede che di esser lasciato queto ad incrementare le sue piante, a produrre le sue erbe: vorrà esser ripulito, vorrà esser aiutato con nuove piante, solo nel settore della Balanzetta, come già avevamo cominciato a fare. Fra cinque anni egli ricomincerà a darci i suoi abbondanti tagli. E’ nostra opinione che convenga sfruttarlo a ceduo, madricinato sì, perché così si formeranno le piante che daranno il legname occorrente per la biolcheria, ma ceduo”.

Tale tecnica di conduzione parrebbe essere non accettata nel piano decennale 1979/1989, nel quale si prevedeva che l’essenza principale, il leccio, dovesse essere cresciuta ad alto fusto; scelta abbandonata (per fortuna!) nel successivo piano “decennale”; in realtà durato venticinque anni, in quanto quello nuovo risulta sottoscritto solo nel 2004(!).

Tali errori di conduzione, potrebbero aver sensibilmente aggravato le conseguenze dei disastri causati dai forti eventi meteo, a seguito del surriscaldamento climatico in corso.

Ciò è motivo di forti preoccupazioni per la sopravvivenza stessa della foresta, da parte delle popolazioni locali, da sempre affezionate a questo relitto boschivo, cresciuto su depositi eolici in riva al mare, ed amorevolmente custodito dai pochi abitanti locali ed anche dalla comunità monastica di Pomposa, e testimonianza delle ultime propaggini del più esteso Bosco Eliceo.

Ritornando al clima post-bellico descritto nella sopra citata monografia vi si può leggere:

“La più parte della popolazione si deve ad elementi importati, che mandati ai lavori di sistemazioni idrauliche, si fermarono poi alla Mesola e nelle sue frazioni; mentre invece forse mantiene il carattere speciale dei primi abitatori la popolazione di S. Maria in Bosco (oggi Bosco Mesola: ndr), che per aver sempre vissuto nei luoghi più alti, ove meno occorrevano lavori di sterro e arginamento, da sola suppliva ai bisogni della sua terra. E difatti all’attento osservatore non sfuggono anche oggi i segni caratteristici, che differenziano gli abitanti di S. Maria in Bosco da quelli delle altre zone. Coll’accrescersi della popolazione e dei bisogni e col diminuire dei lavori cominciò anche lo stato di irrequietezza, che più si intensificò colla cessazione delle opere delle grandi bonifiche e colla predicazione delle teorie di Marx. E in questa zona più facilmente attecchirono, perché la proprietà dava poco lavoro e sempre sotto la pressione o minaccia della popolazione. …..”

”La popolazione, per causa di governi inetti, che si sono susseguiti dal cessare della guerra in poi, aveva imparato che bisognava inscenare dimostrazioni, scioperi, invasioni, per ottenere qualche cosa pur non rendendo niente. E così si ebbero nel dicembre 1919 l’invasione del bosco di Mesola per vantati diritti di legnatico e nel 14 aprile de 1920 l’invasione del castello …”

 

A cent’anni esatti di distanza da quei tragici avvenimenti, non si possono non ricordare tali fatti e ci si chiede, con spirito critico e costruttivo, se la sopravvivenza della foresta debba soltanto essere demandata ad un Corpo militare, creato più per una scelta ideologica dal governo Renzi che per una vera e propria necessità; oppure se le popolazioni indigene, tramite le proprie istituzioni CHE DIMOSTRINO, PERO’, IL PROPRIO INTERESSE PER UN PATRIMONIO UNICO, e non avulse, come, purtroppo, già accaduto, abbiano titolo per interloquire autorevolmente ed entrare in una gestione più vicina al territorio ed ai suoi abitanti.

Forse la politica locale, ma anche quella più centrale, dovrebbe porsi qualche domanda: la creazione di un Parco, organo politico amministrativo, calato dall’alto, anziché valorizzare un patrimonio unico, ha contribuito ad accrescere la distanza tra quel territorio e l’Istituzione, con aggravi e duplicazione di competenze. Si rende atto dell’investimento di notevoli risorse finanziarie, il più delle volte risultati veri e propri sprechi di fondi regionali propri ed anche comunitari, gestiti da organismi tecnico politici, se, come accennato, lo stato della foresta appare, oggi, così depresso e malmesso.

Lucio Maccapani

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