
(foto di Masiar Pasquali)
di Federica Pezzoli
La stagione di prosa del Teatro Comunale Claudio Abbado continua con “La bisbetica domata”, andato in scena dal 29 al 31 marzo, con la regia di Andrea Chiodi e l’adattamento di Angela Demattè.
Assistere a “La bisbetica domata” di William Shakespeare in questa Italia del 2019 può essere disarmante e nello stesso tempo stimolante, specialmente se lo sguardo appartiene a chi è dello stesso genere di Caterina.
Il titolo originale, non a caso, sarebbe letteralmente “L’addomesticamento della bisbetica”: quanto di più maschilista si possa immaginare. Ma quando si parla del Bardo, niente è come sembra. E anche qui, nonostante sia uno dei suoi primi lavori, c’è tutta la misura del genio che sa scrivere del dilemma e dell’ambiguità della vita, mettendoli in scena senza che nessuno fra il pubblico possa mai giudicare e parteggiare per una parte sola di quelle che vede in scena.
Siamo sicuri che a essere addomesticata debba essere Caterina? Tutto, fin dall’inizio, è finzione, tutto è una sfida, un gioco. E allora che Shakespeare in realtà non si stia prendendo gioco, in modo sottile, come solo lui sa fare, delle convenzioni cui Caterina alla fine si sottomette? Il matrimonio come un contratto: la donna, in cambio della dote. Le angherie di Petruccio come espedienti di un fanfarone per nascondere le debolezze – fra le quali anche un’attrazione per Caterina – di un sesso che dovrebbe essere forte.
La (finta) sottomissione come astuzia per smettere di essere la serva della casa e diventarne la regina. In fondo Shakespeare scrive sotto l’egida di Elisabetta, principe di genere femminile, che per esercitare le sue prerogative di sovrano ha dovuto rinunciare all’essere donna e diventare la Regina Vergine.
Un allestimento intelligente, frizzante e molto attuale quello visto a Ferrara. La traduzione e l’adattamento del testo sono di una donna, Angela Demattè, che riesce con un linguaggio fitto di giochi di parole e doppi sensi, pieno di ritmo, a mantenere la vitalità del testo, mettendo in risalto i duelli verbali attraverso i quali si scontrano i personaggi. Il cast è, invece, tutto al maschile, e non solo per rispettare i canoni del teatro elisabettiano, ma per aggiungere finzione a finzione, addomesticamento ad addomesticamento.
Quello che va in scena è un match e tutto lo richiama: dalla pallina in primo piano sul proscenio illuminata dall’occhio di bue, alle scale da arbitri su cui si muovono e si arrampicano i personaggi, ai costumi: farsetti in velluto nero o corpetti dietro i quali sono ricamati in oro i nomi dei singoli personaggi e i numeri tipici delle magliette da calciatore. L’unica a non avere un numero è Caterina, indomita ribelle alle convenzioni dell’epoca.
L’incontro/scontro fra lei e Petruccio è un duello di parole che a tratti diventa fisico, un gioco al lancio e rilancio di battute provocatorie. Chiodi, Demattè e la recitazione dell’intera compagnia sottolineano come i due personaggi tendano a influenzarsi reciprocamente: Caterina, a poco a poco, apprende la finzione da Petruccio e capisce che l’indipendenza si può mantenere anche attraverso la mestizia, mentre Petruccio gradualmente si “incaterina”.
I protagonisti sono due più che graditi ritorni nella città estense: nei panni di Caterina, Tindaro Granata, già a Ferrara con “La locandiera” di Goldoni a novembre, ma ancora prima visto a Ferrara Off con “Antropolaroid”; in quelli di Petruccio, Angelo di Genio, già Biff in “Morte di un commesso viaggiatore” in cartellone nell’aprile 2016, e intenso interprete di “Road movie” a Ferrara Off nel marzo 2017. L’interpretazione di Tindaro Granata è istrionica e ironica, ma profonda e mai scontata, non c’è farsa o macchietta del femminino e del travestito; magistrale il monologo finale, dalla natura artefatta, come forse è la sottomissione di Caterina, capolavoro di retorica, ma vuoto, perché espediente, come lascia intendere lo sguardo d’intesa che Tindaro-Caterina lancia al pubblico.
Angelo di Genio è un Petruccio affascinante e magnetico, sbruffone quel tanto che basta ad attirarsi le simpatie del pubblico, di cui cerca la complicità, arrivando persino a chiedere chi conosca un modo per ‘addomesticare’ una moglie migliore di quello che sta usando lui: digiuni e notti insonni fino alla resa della consorte. Una resa che serve da scudo per nascondere la superficialità di lui, rappresentante del cosidetto ‘sesso forte’.
Intorno a loro si muovono con un ritmo e un’intesa straordinari tutti gli altri interpreti: Christian La Rosa e Igor Horvat, Rocco Schira, Massimiliano Zampetti, Walter Rizzuto e Ugo Fiore. Più che degni compagni d’avventura, amplificano il comico e chiassoso complicato groviglio di equivoci escogitato da Shakespeare e donano ancor maggior spessore a questo allestimento.
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