Economia e Lavoro
4 Agosto 2016
La fusione con Commercio e Finanza è solo l'ultimo passo del graduale fallimento del piano del governo

Carife e il sogno naufragato di una soluzione di mercato

di Ruggero Veronese | 4 min

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CarifeCambiare tutto per non cambiare niente. La vicenda di Carife – e del decreto Salvabanche in generale – assume tonalità sempre più gattopardesche dopo la conferma di uno dei grandi timori legati al destino della nuova banca: l’incorporamento per fusione di Commercio e Finanza, la società di servizi napoletana che faceva parte dell’ex impero del Gruppo Carife e che fin dai tempi del commissariamento si è rivelata uno dei principali ostacoli a una proficua cessione della banca ferrarese.

Per capirne le ragioni non occorre essere esperti di finanza: la società napoletana non produce più utili da almeno tre anni, ha bloccato la stipula di nuove operazioni e ha una cinquantina di impiegati che continuano a pesare sui bilanci di Carife. Insomma: nessun operatore la considera un investimento conveniente. E oggi per Carife diventa il simbolo del fallimento di quella “soluzione di mercato” su cui il governo Renzi ha puntato il 22 novembre scorso con il decreto Salvabanche.

Perchè di vere soluzioni di mercato, per il momento, non se ne sono viste molte. A meno che non si vogliano considerare come tali il mezzo miliardo di euro offerto per il ‘pacchetto’ delle quattro banche appena ricapitalizzate (inizialmente valutate 1,9 miliardi da Bankitalia) o la cessione al 17% del valore nominale dei titoli in sofferenza rimasti nelle bad banks: il ‘mercato’, par di capire, non ha intenzione di svenarsi per quattro piccole banche italiane. Nelle quali per giunta – nonostante la ricapitalizzazione – rimangono invariati diversi problemi strutturali, come dimostra la recente incorporazione di Commercio e Finanza.

Eppure sono passati appena due mesi e mezzo da quando, il 19 maggio scorso, il docente di Unibo Massimiliano Marzo promuoveva senza riserve l’acquisto di Carife: “Ora abbiamo una banca ricapitalizzata e senza sofferenza che può fare molto per le imprese e il territorio. È un’occasione unica a livello internazionale e che va colta, in caso di successo farà scuola in tutto il mondo”. Marzo era tra i relatori dell’incontro ‘Carife, la banca del territorio’, al quale si accedeva tramite invito e a cui presero parte una sessantina di possibili investitori o mediatori. In quell’occasione l’ad di Nuova Carife Giovanni Capitanio – che appena un mese prima aveva parlato di 23 investitori interessati all’acquisto delle good banks – affermò a chiare lettere che “solamente gli ottusi possono vedere le aziende capitalizzate come un problema”.

Difficile contraddire un concetto talmente limpido: una banca senza crediti in sofferenza fa comodo a tutti. Ma ciò non implica che un potenziale investitore sia disposto a pagarla più del suo valore di mercato, permettendo così al sistema bancario italiano di recuperare il costo della precedente ricapitalizzazione. Quando ci si affida al mercato è il mercato a fare il prezzo: legge tanto semplice quanto spietata.

Ironia della sorte, l’impossibilità di affidarsi a una soluzione di mercato ‘pura’ nelle crisi bancarie sembra ormai evidente anche all’interno del governo italiano. Che infatti è impegnato anima e corpo a promuovere il Fondo Atlante II, che dovrà acquistare i crediti in sofferenza del Monte dei Paschi di Siena valutato proprio in questi giorni come peggior grande banca europea dopo la simulazione di scenari di insolvenza. Eppure, nonostante i macroscopici problemi della più antica banca del mondo, Atlante II acquisterà 5 miliardi dei crediti in sofferenza di Mps al 33% del loro valore nominale: il doppio rispetto a quanto gli investitori (o meglio ‘il mercato’) sono disposti a pagare quelli di Carife e delle altre tre bad banks. Nell’operazione potrebbe intervenire in ultima istanza la Cassa Depositi e Prestiti come garante delle banche (per circa 800 milioni di euro) che investiranno nell’operazione. Insomma: soluzione di mercato sì, ma con il ministero dell’economia a fare da garante attraverso il capitale privato della Cdp.

In questo paradossale Monopoli, Carife rischia di fare tutto il giro del tabellone e di ritrovarsi alla casella di partenza. Pur con tutti i conti in ordine per garantire i depositi ed effettuare la consueta attività bancaria, l’istituto non è infatti riuscito a trovare investitori disposti a scommettere nella sua acquisizione e, dopo il trasferimento a Ferrara dei dipendenti di Commercio e Finanza, viene penalizzato anche sul fronte del costo del personale. Il tutto mentre si avvicina il termine – il prossimo settembre – per la cessione definitiva delle nuove Carife, Carichieti, Banca Marche e Banca Etruria, valutate in blocco mezzo miliardo di euro dai due fondi Apollo e Lone Star e senza alcuna garanzia sul futuro delle sedi e dell’attività in generale. E la soluzione di mercato auspicata nove mesi fa dal governo rischia di somigliare sempre più a una svendita ai saldi delle piccole ma fondamentali banche italiane.

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