Eventi e cultura
12 Ottobre 2014
Alla sala estense la “resistenza culturale” della canzone d’autore

La torre di Claudio Lolli

di Redazione | 5 min

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unnameddi Valentina Cioni

In ogni casa esistono dei vinili superstiti che hanno sfidato il tempo e l’evoluzione tecnologica rimanendo un memoriale alla storia della musica. Dischi graffiati di Celentano, riprodotti chissà quante volte in sale buie da disk jockey improvvisati. Copertine di starlette del pop con la loro aria indolente ed i pantaloni a zampa di elefante, esplose in una bolla di sapone e dimenticate (ditemi ora, conoscevate Suzi Quatro? Io no). Album adornati dal volto rudemente elegante di Faber, simbolo di un epoca da cui continuiamo ad attingere liriche con scarsi risultati.

Il pubblico della Sala Estense, nella serata dell’11 ottobre, ama e sospira ancora al ricordo del cantautorato italiano. Un pubblico numeroso ma non giovanissimo, cresciuto con la televisione a colori e che ora riprende gli artisti sul palco tramite smartphone.

Il giornalista di Popoff (mediapartner dell’evento) Checchino Antonini, presenta questa terza edizione dell’evento organizzato dalla Associazione Godot puntualizzandone la missione: “Una resistenza culturale, una battaglia per la canzone d’autore”.

La resistenza è fatta di musica radicata nella tradizione ma anche di nuove voci.

I Meséglise sono una di queste. Band “nata dalle ceneri” dei Sithonia, essa ha aperto la serata in una piacevole session in cui si sentivano chiaramente le contaminazioni del prog-rock anni ’70 alla canzone d’autore. Connubio difficile, a quanto pare riuscito unendo alle classiche chitarre, basso e percussioni la forza delle tastiere e del violino.

Finita l’esibizione dei Meséglise, si è passati direttamente al momento più atteso dai nostalgici del cantautorato impegnato. L’arrivo di Claudio Lolli è stato salutato con grande calore, mitigato dalla autoironia dello stesso artista. Lolli ha subito rotto il ghiaccio, ricordando il malore che lo ha colpito durante l’edizione passata dell’evento, che non gli permise di salire sul palco.

“Una penna espressionista” della lotta di classe – l’ha introdotto Antolini -, della storia collettiva del nostro paese. Di quando Bologna era la “Parigi d’Italia”. La Bologna delle osterie, dell’amore, della ebbrezza giovanile. La Bologna dell’ 11 Marzo 1977, delle lotte studentesche, degli attentati, dei manganelli e delle pallottole.

unnamed4La storia dell’artista e la sua poesia attinge da tutto ciò, anzi ne è parte integrante, tanto che l’autore che esordì a vent’anni con “Aspettando Godot” ne era il vessillo poetico. E ne tramanda a distanza di 40 anni un bagaglio enorme, difficile da esprimere in versi. Nessuna rima baciata, ma “versi potenti, grida di sax, immagini possenti”. Canzoni lunghe, temi scottanti, difficilmente accettati all’epoca.

Sul palco una vera e propria réunion con la stessa formazione che nel lontano 1976 suonò l’album “Ho visto anche degli zingari felici”, ottenendo il clamoroso successo di centomila copie vendute e costringendo la multinazionale Emi ha metterlo sul mercato a prezzo politico (la metà del prezzo normale). Al gruppo storico composto da Claudio Lolli, Roberto Soldati a quella elettrica, Danilo Tomasetta al sax si è aggiunto ieri sera Paolo Capodacqua alla chitarra acustica. Lo spettacolo ha visto Lolli esordire con una breve poesia di Pietro Ingrao (“un poeta strappatoci dalla politica”): “Pensammo una torre. Scavammo nella polvere”, recita il cantautore attingendo dal suo fedele quaderno.

E arriva il momento degli zingari felici, di Agosto, di riflessioni sul suo lavoro, che “non è un mestiere”, ma “un’occasione, mi auguro piacevole, di comunicare e far pensare” con le sue canzoni che “ormai sono tutte vecchie”, scherza ammiccando al pubblico. Vengono quindi i versi dedicati a Piero Ciampi (“I musicisti di Ciampi”), pensate ascoltando “Ha tutte le carte in regola per essere un artista” e la correzione al celebre verso di Mao (“il potere nasce dalla canna del fucile”): “non è vero, il potere nasce dalle parole (…) gli ultimi venti anni del paese dimostrano che è così”.

Si passa ad “Analfabetizzazione”, testo in cui il protagonista crea una sua rivoluzione semantica. Utopica forse, ma: “Utopia è un luogo immaginario, irraggiungibile forse; ma il viaggio non è la meta, è tutto quello che attraversiamo per arrivarci”.

Al tema politico si accosta quello più naturale, dell’amore. E alla natura dell’amore dedica, “Frequenza del cuore”, svelando come in passato tale canzone generasse sdegno poiché la parola “compagno” fosse ripetuta ben 14 volte nel testo. “Se vi fa paura una parola che significa condivisione del pane – strizza l’occhio Lolli -, uscite a fumarvi una sigaretta, ci rivediamo qui tra cinque minuti”.

Si passa poi ai ricordi degli esordi con “Folk Studio”. Era un locale romano storico, frequentato dagli artisti più importanti del mondo musicale. Così storico che aveva un palco minuscolo, “probabilmente calcato anche da Bob Dylan”, con una raffazzonatissima tenda a fiori. Ma tanto bastava. Ci passarono anche De Gregori e “un cantante – scherza – di cui non ricordo il nome, grande tifoso della Roma (Venditti, ndr)”. Al gestore di Folk studio, “che apriva ogni serata facendo ascoltare l’Internazionale”, è dedicata la canzone. A quanto risulta quello di Lolli è l’unico pezzo che accompagna la memoria di quello scopritore di talenti.

Lolli ed i suoi concludono con i pezzi de “Ho visto anche degli zingari felici”, tra cui “Anna di Francia” e “Primo maggio di festa”, lasciandosi dietro un frastuono di applausi, molti commossi. Il sipario si chiude con Massimo Altomare e Stefano Bollani, che tra inediti e non, omaggiano gli anni beat. Le pietre miliari della musica sono state riviste, la canzone italiana sopravvivrà (nella nicchia), il sipario cala. Per ora. Lasciandosi alle spalle la polvere e lasciandoci la torre.

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