Cronaca
2 Marzo 2013
Fu di Pontani la famosa frase ‘l’abbiamo bastonato di brutto per mezz’ora’

Aldrovandi, l’ordinanza: “Nessun gesto di pentimento”

di Marco Zavagli | 3 min

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00007700-constrain-110x110Fu lui a dire la famosa frase “l’abbiamo bastonato di brutto per mezz’ora”. Erano circa le 6.30 del 25 settembre 2005. Federico Aldrovandi giaceva privo di vita sull’asfalto e uno dei quattro poliziotti che avevano appena smesso di ‘contenerlo’ parla con la centrale: “l’abbiamo bastonato di brutto per mezz’ora… solo che adesso è svenuto, non so, è mezzo morto…”. A riferire della colluttazione era Enzo Pontani, che durante l’esame del processo di primo grado giustificò quelle parole rubricandole come “solo modi di dire”.

Ora anche lui, dopo i tre colleghi condannati per omicidio colposo (Monica Segatto, Paolo Forlani e Luca Pollastri) entrerà in carcere per scontare la pena di sei mesi. Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha rigettato la sua richiesta di pene alternative. E nelle quattro pagine dell’ordinanza ne spiegano i motivi.

Nel provvedimento firmato dai giudici Francesco Maisto (presidente) e Antonia Abiosi (relatore), il tribunale riprende in più punti le tre sentenze di condanna a tre anni e mezzo comminate il 6 luglio 2009 dal tribunale di Ferrara, il 10 giugno 2011 da quello di Appello di Bologna e il 21 giugno 2012 dalla Cassazione. Tutti punti che identificherebbero il comportamento tenuto da Pontani e dai suoi colleghi quella notte, quando affrontarono “armati di manganelli (due dei quali poi addirittura risultati rotti, ed in primo tempo occultati), mediante pesantissimo uso di mezzi di violenza personale” il giovane. E proseguendo nel pestaggio anche quando “era ormai a terra e nonostante le sue invocazioni di aiuto, fino a sovrastarlo letteralmente di botte (e anche calci)”.

Viene poi in luce il comportamento successivo dei poliziotti, che “avrebbero dovuto portare un contributo di verità, ad onta delle manipolazioni dei superiori”, mentre invece non hanno voluto “squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta sin dalle prime ore di quel 25 settembre”. Quindi “violenza ingiustificata prima “ e “dissimulazione del vero poi” che portarono “discredito per il Corpo di Polizia cui ancora essi appartengono”.

Da questi dettagli il tribunale di sorveglianza ricostruisce la personalità del condannato, che evidenzia “pesanti carenze, tanto più gravi per un esperto agente di Polizia” e “noncuranza per il dolore e la sofferenza della vittima, a lungo percossa e contenuta, fino a morirne”.

E nemmeno “a distanza di 8 anni da fatto” Pontani ha dato segnali “indicativi di effettiva comprensione della vicenda delittuosa e presa di distanza dalla stessa”. E non c’è stato nemmeno “un gesto simbolico a testimoniarla, nei confronti della vittima e dei suoi familiari (anche una semplice lettera…)”, “né un gesto di riparazione sociale” e “tantomeno la stigmatizzazione della vicenda”.

Per i giudici di sorveglianza le stesse dichiarazioni rese da Pontani all’udienza del 26 febbraio lasciano intravedere “un atteggiamento ancora di difesa del proprio operato” che gli ha impedito “in tanti anni trascorsi fino ad ora di mettere in atto anche solo semplici gesti, per manifestare, come avrebbe ben altrimenti potuto, senza clamore e senza risalto mediatico, la propria consapevolezza della vicenda pensale e umana, nei riguardi dei familiari della vittima”.

In conclusione, il tribunale rigetta l’istanza del poliziotto, “atteso che nessun avvio di percorso di rieducazione e recupero può in concreto ipotizzarsi in tale quadro”.

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