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19 Agosto 2017
Il Maxxi rende omaggio all’architettura contemporanea con la mostra dedicata alla sua musa

Zaha Hadid e l’Italia che ha lasciato

di Redazione | 5 min

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In un’epoca in cui salute e sicurezza, economia, clima e politica, sono pervase da una fluida incertezza, potrebbe sembrare logico che l’architettura contemporanea debba riflettere tale tendenza e che con tutta probabilità eviti di prendere una direzione ben definita, oscillando tra il minimalismo ascetico, il proselitismo ambientalista e le decorazioni neobarocche. Tuttavia, alcuni architetti trovano il coraggio di aggrapparsi con fervore a una filosofia di continuità, di affermare audacemente che può esistere, e di fatto esiste, un nuovo paradigma degno di attenzione o perfino di emulazione. Tra i pochi artisti in grado di lanciare un simile appello c’è Zaha Hadid (Baghdad, 31 ottobre 1950 – Miami, 31 marzo 2016), vincitrice del Pritker 2004.

La sua morte prematura nel marzo 2016 è stata pianta universalmente. Nel catalogo della Biennale di Architettura di Venezia del 2008, Patrik Schumacher, fedele collaboratore di Hadid, firma un testo in cui afferma: “Nell’architettura contemporanea d’avanguardia è possibile rintracciare un nuovo e inconfondibile manifesto di stile caratterizzato da una sensazionale linearità curva, complessa e dinamica. Al di là di questa evidente qualità immediatamente percepibile è possibile individuare una serie di nuovi concetti e metodi così distanti dai modelli architettonici tradizionali e moderni da poter suggerire la nascita di un nuovo paradigma architettonico. Le idee comuni, i repertori formali, le logiche tettoniche e le tecniche digitali che contraddistinguono queste opere stanno creando le basi di un nuovo stile predominante: il parametricismo, il primo grande movimento nato dopo il moderno. Il postmoderno e il decostruttivismo sono episodi transitori che si sono manifestati in questo nuovo e lungo percorso di ricerca e innovazione []”.

Resta da vedere se il termine parametricismo riesce a prendere piede e passa davvero a denominare uno stile o una scuola di architettura contemporanea, ma è comunque chiaro che Zaha Hadid Architects ha richiamato l’attenzione su una metodologia e un approccio progettuale, nati solo 30 anni fa, che mettono in discussione diversi presupposti fondamentali della stessa architettura.

A prescindere dalla sua predisposizione a sfidare la geometria, o più precisamente l’organizzazione e la distribuzione spaziale degli elementi architettonici, Hadid ha mostrato notevole coerenza e continuità di pensiero durante tutta la sua carriera professionale, una costanza che non è affatto legata a quel genere di stile basato su griglie ortogonali che ha ispirato Richard Meier o Tadao Ando, per esempio. I suoi progetti e le sue realizzazioni hanno in comune la fluidità delle piante e il movimento degli spazi e delle superfici che l’artista è riuscita a generare, ma dalla spigolosità della Caserma dei vigili del fuoco del Campus Vitra (Weil am Rhein, Germania, 1988 – 1993) alla più recente installazione Dune Formations (David Gill Galleries, 2007), si può notare una tendenza a mettere in dubbio l’architettura e gli arredi del passato.

Zaha Hadid è nata a Baghdad, Iraq, da una famiglia benestante, è cresciuta in uno dei primi edifici bauhaus di ispirazione a Baghdad durante un’epoca in cui “modernismo” significava glamour e pensiero progressista in Medio Oriente.

Ha conseguito una laurea in matematica alla American University di Beiurut prima di trasferirsi a Londra, nel 1972, per studiare alla Architectural Association, dove ha incontrato Rem Koolhaas, Elia Zenghelis e Bernard Tschumi. Dopo aver conseguito il titolo ha lavorato con i suoi ex professori, Koolhaas e Zenghelis, presso l’Office for Metropolitan Architecture (OMA), a Roterdam, nei Paesi Bassi, diventando socia nel 1977. Attraverso la sua associazione con Koolhaas, ha incontrato Peter Rice, l’ingegnere che le ha dato sostegno e l’ha incoraggiata nella fase iniziale, in un momento in cui il suo lavoro sembrava difficile. Nel 1994 ha insegnato alla Graduate Scool of Design dell’Università di Harvard, occupando la cattedra che fu di Kenzo Tange. Nel 1980 fonda il suo studio a Londra. Dagli anni ottanta ha insegnato alla Architectural Association.

Ѐ scomparsa nel 2016 all’età di 65 anni, a seguito di un attacco cardiaco mentre era in ospedale a Miami, dove era stata ricoverata per una bronchite.

Un anno dopo la sua improvvisa scomparsa, il Maxxi ospita fino al 14 gennaio 2018 la mostra “L’Italia di Zada Hadid” a cura di Margherita Guccione (direttore Maxxi Architettura) e Woody Yao (direttore Zaha Hadid Desin).

Organizzata in collaborazione con la Fondazione Zaha Hadid, la mostra intende evidenziare l’intenso e duraturo rapporto dell’architetto con il nostro paese a partire da progetti come il Terminal Marittimo di Salerno, il Messner Mountain Museum a Plan de Corones, City Life a Milano, e naturalmente, il Maxxi.

Allestita negli spazi della più spettacolare galleria del museo, la Galleria 5 con grande vetrata che si proietta sulla piazza, la mostra esplora a 360 gradi l’opera e il pensiero di Hadid: dai bozzetti pittorici e concettuali ai modelli tridimensionali, dalle rappresentazioni tridimensionali e virtuali, agli studi interdisciplinari, insieme a oggetti, video, fotografie capaci di rivelare lo sforzo costante di ricerca pionieristica e sperimentale. Un’ampia sezione è dedicata al rapporto di Zaha con il design made in Italy, con cui ha stretto interessanti e ripetuti sodalizi creativi e produttivi. Anche quando disegna oggetti e arredi, Zaha rimane sempre e prima di tutto un architetto: i suoi oggetti occupano lo spazio come vere e proprie architetture. Dai divani per B&B Italia e Cassina alle sedie, le panche, i tavoli per Sawaya & Moroni; dalle lampade per Slamp, ai vasi e i centrotavola per Alessi e le librerie componibili per Magis, con incursioni nel mondo dell’alta gioielleria con l’anello B.zero1 e della moda con l’esclusiva borsa disegnata per un evento charity di Fendi.

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