Eventi e cultura
7 Febbraio 2016
Il ricordo di Abbado, il bisogno di cultura e la vergogna della politica nelle parole del grande violinista

Decadimento della musica, l’antidoto di Uto Ughi

di Redazione | 8 min

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Uto Ughi 2di Anja Rossi

Divulgare la musica classica per combattere il suo decadimento. È questa la missione di Uto Ughi, il grande violinista varesino che venerdì 12 febbraio si esibirà al teatro Nuovo.  Una serata di grande musica selezionata appositamente dal maestro, considerato a ragione il numero uno del violino nel mondo, per coinvolgere il pubblico di Ferrara. La sua capacità narrativa e comunicativa trapela non solo dall’archetto ma anche dalle sue parole, durante l’intervista che ha rilasciato a Estense.com in attesa dello spettacolo in cui proporrà brani di Vitali, Beethoven, Dvorak e Saint Saens.

Ferrara, per un musicista, vuol dire soprattutto anche Claudio Abbado. Cosa ricorda di lui?

“Abbado era una persona che io ammiravo enormemente. L’ultima volta che l’ho visto era in Venezuela e dirigeva l’orchestra dei giovani Simon Bolivar. Io avevo dato due concerti, lui era lì, così siamo stati insieme una settimana”.

Entrambi avete affrontato temi molto simili. Soprattutto col vostro impegno sociale e civile.

“Lui era una persona che si dava moltissimo ai giovani”.

Mi sembra anche lei, maestro.

“A me piace moltissimo fare musica con i giovani. Purtroppo i ragazzi che oggi suonano uno strumento in Italia si trovano penalizzati perché dopo dieci anni o più di studio si trovano senza lavoro e spesso devono andare all’estero per lavorare. Questa è una vergogna della politica italiana, che ha pochissime attenzioni per la cultura. E per la cultura musicale, soprattutto, ancora meno. In Venezuela ci sono più di cento orchestre giovanili, che lavorano a tempo pieno, mentre in Italia quello che manca sono proprio le orchestre”.

E perché è così, secondo lei?

“Abbiamo la tradizione musicale più ricca del mondo, insieme alla Germania. Un tempo i più grandi musicisti venivano a imparare in Italia, poi questo è stato lasciato cadere per trascuratezza, negligenza e mancanza di iniziativa politica. Forse anche gli stessi musicisti avrebbero dovuto uscire dalla loro torre d’avorio, come faceva del resto Abbado e come fa il maestro Muti ora, che aiuta moltissimo i giovani e li fa suonare nella sua orchestra. Per troppo tempo nelle scuole non c’è stata un’adeguata preparazione sulla cultura della musica, che pure fa parte del nostro patrimonio nazionale. Dovremmo essere il fiore all’occhiello, invece siamo gli ultimi in Europa. Da quattro orchestre della Rai, siamo passati ad averne solo una, del tutto insufficiente per un Paese di sessanta milioni di abitanti. È una vergogna”.

Lei dice: la politica deve far qualcosa, ma anche i musicisti. È questa la possibile (doppia) soluzione?

“Dalla politica non mi aspetto più niente, perché sia Abbado che Muti hanno sempre protestato e non è cambiato nulla. Bisogna invece rimboccarsi le maniche: i musicisti devono andare nelle scuole, anche gratuitamente. I miei colleghi non possono pensare che la loro posizione durerà per sempre, perché una generazione tenuta a digiuno dalla grande musica sarà una generazione che non amerà mai più la musica classica. E rischiamo così di avere le sale vuote, entro qualche anno. Quello che non fa la politica deve farlo chi ama e chi sente la musica come un ideale, come una ragione di vita”.

Che cos’è per lei la musica?

“È un linguaggio che è al di là delle barriere ideologiche e politiche. È un linguaggio che arriva dappertutto: Beethoven è sentito con la stessa intensità a Ferrara come a New York, come a Gerusalemme. La musica è un linguaggio che non ha bisogno di traduzioni linguistiche, ma solo di un interprete che la sappia trasmettere e sappia toccare l’ascoltatore. Per me la musica è condivisione di un ideale di bellezza e armonia, di espressione”.

E quando le è scoppiata nel cuore la musica?

“Scoppiata è una buona parola (ride). Ho sempre avuto una passione per la musica fin da bambino. La mia famiglia non era di musicisti – mio papà era avvocato – ma li frequentava. Spesso persone come il primo violino alla Scala faceva musica in casa mia e sono cresciuto respirando queste atmosfere. Così ho abbracciato questa professione, o arte… non so come si possa chiamare”.

Anche una missione forse, da come la racconta.

“È infatti una comunicazione anche spirituale, sì”.

A proposito di spirituale, come vede i giovani oggi? C’è una mancanza o una ricerca di spiritualità in loro?

“I ragazzi sono come delle spugne: assorbono quello che viene dato loro. Per questo gli educatori e quelli che fanno i programmi scolastici hanno una responsabilità grandissima: di formare o di disinformare. Purtroppo spesso disinformano. I giovani sono molto sensibili, perché non sono ancora ‘guastati’. Soprattutto quelli delle elementari e delle medie hanno una mente più sgombra, hanno ancora una freschezza e un entusiasmo. Direi una curiosità, e per questo bisogna dare loro la possibilità di fare domande liberamente. Quando offro degli incontri con i ragazzi, racconto i pezzi che hanno ascoltato non con lezioni noiose o didascaliche, ma spiegando loro il significato, la genesi della creatività dell’autore. Da che cosa scaturisce un pezzo? Qual è il suo carattere? Se si dà qualche accenno, i giovani ascoltano con maggiore interesse. Ovviamente non bisogna dare spiegazioni troppo complesse: sarebbe come far leggere la Divina Commedia o l’Eneide a chi non ha mai sentito parlare di poesia”.

Diamo un consiglio a dei genitori o a dei professori illuminati. Da cosa si può partire?

“Io partirei dalle Stagioni di Vivaldi, per esempio, perché è musica descrittiva e figurativa”.

Lei di solito, durante i concerti, racconta i pezzi che andrà ad interpretare. Le piace insegnare?

Io mi diverto molto a farlo perché si crea un contatto e si crea una curiosità che altrimenti, ascoltando la musica pura, non si creerebbe. È come andare a vedere una galleria d’arte con qualcuno che spiega le motivazioni di un quadro. La musica ha sempre una sua logica, una sua ragione di essere. Bisogna avere la capacità, la pazienza e anche la generosità di insegnare ai giovani. Parlo di generosità perché educare vuol dire anche dedicare un po’ del proprio tempo. Bisogna dedicare qualcosa di proprio, anche se qualche volta può risultare faticoso. Quando però i giovani capiscono e captano e sono contenti della spiegazione, è qualcosa di appagante”.

Quindi servono prima buoni insegnanti? O bravi giovani?

“Le due cose vanno insieme: i giovani sono bravi quando ascoltano dei buoni insegnanti. E gli insegnanti, però, riescono a spiegare meglio se i giovani hanno la capacità di ascoltare. Bisogna spiegare con parole semplici ma efficaci il significato di ogni pezzo. La musica, d’altro canto, ha la fortuna di essere un linguaggio che non ha bisogno di troppe parole. Non servono tanti elucubrazioni filosofiche o spiegazioni erudite, ma serve fare le cose con un certo discernimento, un certo equilibrio. Faccio un piccolo esempio: le lezioni che faceva Leonard Bernstein, un grande direttore d’orchestra ebreo americano per i giovani a New York, dove spiegava la funzione e la caratteristica di ogni strumento dell’orchestra. Faceva suonare un brano a un clarinetto, un altro al violino, poi li metteva insieme e faceva sentire al pubblico come funzionava un’orchestra e come si amalgamavano le sue parti. Lui era un grande talento della spiegazione, perché riusciva a far gustare anche le opere più difficili e a interessare i giovani”.

È un’arte nell’arte, questa.

“È un’arte nell’arte, sì”.

Mi dica, cosa manca in Italia? Perché non si può fare come Leonard Bernstein?

“Perché in Italia mancano le persone carismatiche e di grande personalità. Anche solo di vent’anni fa, a differenza di oggi, nella direzione dei teatri c’era gente di grosso spessore, di grande sensibilità e di profonda conoscenza musicale. Oggi invece mettono gente che di musica ne sa pochissimo, che è nei teatri per raccomandazione politica e non per meriti artistici. C’è un decadimento della musica perché ai vertici non ci sono più le personalità che c’erano una volta”.

Quindi non è una questione economica, o non è solamente una questione economica.

“No, assolutamente. È una questione di qualità, di conoscenza e di livello. Non c’è più il livello di una volta, quel livello che ho conosciuto io”.

Può essere un fattore legato alla televisione, a internet?

“La televisione è stata molto nociva, è un’arma a doppio taglio: di cultura e informazione straordinaria oppure di abbassamento di livello terribile. Non dico nulla di nuovo, ma trovo che in televisione le cose interessanti siano pochissime e confinate a ore che nessuno vede. La cosa più terribile della tv è che ha abituato i giovani alla violenza, a considerarla quasi come un gioco. E ciò è criminale”.

Tornare nei teatri, può essere un modo per tornare a essere umani? Un contatto vivo di persone tra persone?

“L’arte è sempre una ricerca di espressione, che è ricerca verso la bellezza, di verità e di raffinamento del gusto. Chi va a teatro si aspetta di vedere qualcosa di bello, che gli faccia piacere, e non che gli dia sentimenti di violenza o distruzione”.

E Shakespeare allora?

“Certo, però in Shakespeare, oltre a queste cose truci, era sempre ben presente un ideale. Ecco, oggi invece viviamo in un’epoca in cui gli ideali sono crollati. Per carità, non ho la pretesa di redimere il mondo, ma ho il desiderio di abbellire la società, approfondendo l’arte che hanno lasciato i geni. E farla conoscere agli altri è bellissimo. Sa cosa ci vogliono, oggi?”

Cosa ci vogliono?

“Ci vogliono dei divulgatori della cultura, che facciano conoscere le cose migliori a chi non ha la possibilità di conoscerle”.

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