Eventi e cultura
11 Gennaio 2021
Il libro-reportage di Luca Greco fa luce sulle realtà di segregazione viste attraverso l'obiettivo della sua macchina fotografica

Dalla Palestina all’Irlanda del Nord: ‘Le strade dell’Apartheid’ s’intrecciano e arrivano a Ferrara

di Redazione | 4 min

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di Cecilia Gallotta

Palestina, Irlanda del Nord e Sahara Occidentale: tre terre, tre storie, tre popoli, che s’intrecciano in un solo sguardo, quello di Luca Greco, autore del libro-reportage fotografico (e non solo) “Le strade dell’Apartheid”. Classe 1979, sindacalista, educatore e “no global dai tempi del 2001” come si autodefinisce, l’intento dell’autore è sbrogliare la matassa di queste strade apparentemente lontane e distanti, e tracciare un unico, chiaro fil rouge: quello della privazione della libertà. Ed ecco che “fra lamiere e sabbia, filo spinato e vento, cemento e neve – scrive Greco – veloce si snoda, tutto abbraccia e tutto intreccia”.

Nel titolo hai usato un termine forte, che alla mente evoca subito il periodo storico di Nelson Mandela. Come mai?

“Sono consapevole della potenza del termine e l’intento è proprio quello. Perché il principio su cui si basano questi spaccati di realtà affonda le stesse radici della segregazione razziale ai tempi di Mandela, ossia la scientifica privazione della libertà. Le strade di Belfast, come quelle di Hebron, Tulkarem, Dheishe, New Askar, Daklha e Smara, trasudano claustrofobia. La si legge nei muri, ma anche negli occhi. Sono piene di questa assenza”.

Cosa ti ha portato a visitare i luoghi in cui sei stato, e che hai raccontato attraverso i tuoi scatti?

“Ho avuto la fortuna di viaggiare per lavoro, con la Nexus (l’Ong della Cgil) che ha diversi progetti attivi nei campi profughi Sharawi, per esempio, e nel 2013 sono andato lì a vedere come andavano. E come sempre, avevo con me la mia macchina fotografica, con cui ho cominciato a dilettarmi per passione ormai più di vent’anni or sono, quando c’erano ancora i rullini. In Palestina, poi, ci sono andato nello stesso anno per conto mio, durante le mie ferie, attraverso un’associazione milanese che organizzava un viaggio di conoscenza. Anche in Irlanda, sempre per conto mio, ma due anni dopo”.

Come nasce l’idea del libro?

“In realtà non nasce come libro, ma come mostra fotografica: c’è stata una prima esposizione nel 2015 a Crema, e successivamente a Ferrara in occasione di Internazionale, e ancora a Genova, Padova e tante altre città. Questa mostra diventa poi parte di uno spettacolo teatrale di Chiara Tarabotti, una drammaturga milanese che ha pensato a tre personaggi iconici, ognuno per ogni terra, che fanno ‘vivere’ il racconto del loro popolo, parlando attraverso le mie foto. La gente che incontravo durante le esposizioni di questa mostra, già ‘contaminata’ dal teatro, mi dicevano poi che sarebbe stato interessante arricchire il tutto con un mio personale racconto delle foto, e così ho inserito degli scritti, con cui ha preso forma un vero e proprio libro”.

Purtroppo si può dire che il tuo libro è uscito assieme al primo Dpcm…

“Peggio. È uscito esattamente il 12 marzo, lo stesso giorno che il governo ha chiuso le librerie. Di tutte le date di presentazioni che avevo, sono riuscito a farne solo due o tre, nei mesi estivi. Di presentazioni on-line non se ne parla, perché le foto le devi vedere, e le devi ‘sentire’. Comunque tutto sommato non mi lamento di ciò che sono riuscito a vendere fino adesso: anche perché l’obiettivo non è il guadagno economico, ma il poter in qualche modo, nel mio piccolo, tenere acceso un faro su queste realtà, che spesso non si conoscono, o peggio, ce ne si dimentica”.

Un esempio in questo senso?

“Prendiamo l’Irlanda del Nord: è spaccata in due, tra cattolici e protestanti, ci sono addirittura i bagni divisi. Molta gente probabilmente non si immagina neanche fino a dove può arrivare il divario, eppure siamo a un’ora e mezza di volo nel cuore della civilissima Europa, nel 2020. Pardon, nel 2021 ormai. E non si può nemmeno definire guerra di religione, perché entrambi credono nello stesso Dio. Per non parlare del governo israeliano, per la cui critica so di aver corso il rischio di sentirmi dare dell’antisemita, e così ho chiesto un contributo ad un ragazzo conosciuto durante il viaggio, Ronnie Barkam, ebreo israeliano, che in qualche trafiletto racconta la quotidianità fatta di segregazione del suo governo”.

L’intento del libro, dunque, è anche quello di riportare le testimonianze di chi hai incontrato? Dare un contributo all’intreccio di vite di cui parlavi all’inizio?

“Assolutamente sì, la mia è stata una promessa. A tutte quelle persone che ho conosciuto durante i miei viaggi, e mi hanno detto: ‘Vai a casa, e racconta ciò che hai visto'”.

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