L'inverno del nostro scontento
6 Maggio 2020

Lettere dal tempo del coronavirus – 3. Il Grande Sterminio dei Vecchi

di Girolamo De Michele | 12 min

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La prima lettera è qui
La seconda lettera è qui

Questa lettera è divisa in due parti. In quella di oggi parlerò della macelleria lombarda degli anziani, e della strage di lavoratori lombardi. Nella prossima parlerò non della Lombardia, ma del Sistema Sanitario Nazionale, e collegherò i puntini per spiegare perché i responsabili politici e morali (il piano criminale lo lascio alla magistratura) di questa strage non sono capaci di pensare a scuse e dimissioni.
La morale di questa doppia lettera è in uno slogan che dalle femministe cilene è dilagato in tutto il mondo:

Non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema.

Comincio con una citazione tratta da una lettera che 13 medici di Bergamo e Milano hanno inviato al New England Journal of Medicine [qui; qui una sintesi in italiano]:

I sistemi sanitari occidentali sono fondati sul concetto di cura incentrata sul paziente: ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza che metta al centro la comunità. Stiamo apprendendo con dolore di aver bisogno di esperti in sanità pubblica e in epidemie: eppure non è stato questo l’obiettivo dei decisori a livello nazionale, regionale e ospedaliero. Ci manca la competenza sulle condizioni epidemiche, che ci guidi nell’adozione di misure speciali per ridurre i comportamenti epidemiologicamente negativi.

Queste parole dovrebbero costituire la stella polare per ogni futura politica sanitaria degna di questo nome.
Il presente è quel numero che ogni sera ci viene comunicato, oramai con distacco (eppure ci sono stati giorni in cui il numero quotidiano di morti ha superato quello di 15 anni di terrorismo). Il presente è la Lombardia, dove «hanno fatto un’operazione d’ingegneria demografica che passerà alla storia come “Il Grande Sterminio dei Vecchi del 2020” – ancora in corso peraltro con contagi che vanno avanti a tre cifre. Tutti i giorni il pupazzo cattivo di Saw l’enigmista dice che bisogna riaprire tutto, e che loro anzi riaprono pure prima degli altri perché sono i più fichi der bigoncio (zerocalcare)».

Alziamo lo sguardo allo specchietto retrovisore, e guardiamo il passato.
Il 10 gennaio 2018, ci informava il Corriere della sera, i reparti di terapia intensiva a Milano erano al collasso: «difficoltà ad accogliere nuovi pazienti, rinvio degli interventi chirurgici programmati e prenotazioni sospese per i posti letto delle rianimazioni destinati ad accogliere i malati dopo le operazioni, turni straordinari (gratis) per medici e infermieri richiamati dalle ferie». La causa? L’influenza. La sanità pubblica milanese andava in tilt per la normale, stagionale influenza due anni fa.
Come ci sono arrivati?
Perché la tendenza nazionale di tagliare la sanità pubblica in favore del privato in Lombardia è stata ancora più accentuata, sia per intensità, sia perché la regione Lombardia è partita per prima, facendo da apripista al resto d’Italia. Quando Carlo Cattaneo diceva che ciò che pensa oggi Milano, domani lo penserà l’Italia, non poteva sapere che sarebbe arrivato Formigoni – quella normalità che era il problema:

Nel 1994 il sistema sanitario lombardo poteva contare su 27 ospedali, 5 strutture “classificate” (religiose, ma considerate pubbliche), 5 Irccs (gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico: le eccellenze), 3 università (Milano, Pavia, Brescia). Il privato aveva 52 strutture, 6 Irccs, zero università. Oggi è cresciuto a 102 strutture, ben 21 Irccs e 4 università (San Raffaele, Humanitas più due progetti), mentre il pubblico si è grandemente ridimensionato. Oggi in Lombardia è già avvenuto il sorpasso privato-pubblico. I dati totali dell’ultimo anno con dati disponibili, il 2017, ancora non lo rilevano, ma già dicono che il privato incamera in proporzione più risorse del pubblico. Su 1.441 milioni di ricoveri, 947 mila (il 65%) sono negli ospedali pubblici, 495 (il 35%) nelle strutture private. Ma il privato incassa 2.153 miliardi di euro sui 5.4 totali (il 40%), contro i 3.271 del pubblico. Dunque il 35% dei ricoveri incassa il 40% delle risorse impegnate dalla Regione Lombardia. La tendenza è la stessa per le visite ambulatoriali e gli esami: […] quindi, anche qui, le prestazioni erogate dal privato hanno una remunerazione più elevata di quella del pubblico.

Così sintetizza Gianni Barbacetto, facendo riferimento allo studio di Maria Elisa Sartor Sanità in Lombardia: pubblico e privato a confronto.
Ancora qualche numero: nel 2009 in Lombardia c’erano 43.000 posti letto in strutture pubbliche o accreditate, 4.4 per 1.000 abitanti; nel 2017 sono scesi a 38.000, 3.8 per 1.000 abitanti. Nel 2009 le strutture pubbliche erano 1.280, quelle private 2.201; nel 2017 le strutture pubbliche scendono a 1.154, le private salgono a 2.407 (traggo questi dati dagli Annuari Statistici del SSN, anni 2009 e 2017, ultimo disponibile).

Chi, ai tempi, seguiva E.R. – Medici in prima linea, una fiction che a giusta ragione è stata definita la Comédie Humaine contemporanea, ricorderà che in uno degli ultimi episodi [Vecchi tempi, 15×19] John Carter si ricovera per un trapianto di rene nella clinica privata in cui lavora il suo vecchio amico e collega Peter Benton. Il quale, imponendo un protocollo da ospedale pubblico che comporta la perdita di un minuto per la lettura della lista di controllo chirurgica (dalla quale emerge l’assenza della soluzione riperfusiva) allo spazientito chirurgo che protesta perché ha altri 10 interventi in giornata, salva il rene, e forse la vita, all’amico dopo che un trombo imprevisto ha messo a repentaglio la buona riuscita dell’intervento. Non credo che la differenza fra una sanità che mira all’essere umano come degno di cura e protezione rispetto a una sanità che mira all’ottimizzazione dei tempi e del profitto possa essere descritta meglio. Se a quella lista di controllo e a quella boccetta di soluzione riperfusiva sostituite i protocolli da seguire in caso di sospetto coronavirus, che non sono stati seguiti nelle case di cura della bassa lodigiana e nella clinica privata Sant’Antonino di Piacenza, capite perché il coronavirus ha trovato autostrade nazionali senza casello in una sanità dova lo smantellamento della medicina del territorio è servita a finanziare la cosiddetta “eccellenza sanitaria” lombarda, consegnata al profitto dei privati che non investono in settori poco redditizi come la terza età, la prevenzione di base. La normalità era il problema al quale non vogliamo tornare: la “normale” assenza della medicina del territorio.
Nel 2010 Roberto Formigoni aveva sul tavolo un documento di valutazione del Piano Pandemico Regionale, che elencava una dopo l’altra mancanze, errori e disfunzioni esistenti. Dieci anni dopo, passando da Formigoni e Maroni a Fontana, nulla è cambiato: il disastro coronavirus in Lombardia era già scritto, perché a dirigere la Lombardia e la sua sanità non ci sono bravi medici come Benton e Carter, ma i pupazzi di Assolombarda – la normalità che era il problema.

Su questa “normalità”, la quarta settimana di febbraio, è precipitato il diktat dei padroni lombardi, come li si chiamava ai tempi in cui le parole erano conseguenza delle cose (adesso immagino sia più figo, per dirla con Marattin, chiamarli “galantuomini che intraprendono”). La voce del padrone ordina, e nei gradi successivi i cani alla catena – politici e amministratori nazionali e locali – obbediscono.
Riprendo [da qui], sintentizzandola, la sequenza degli eventi:

22 febbraio. All’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo (Bergamo) vengono fatti i primi due tamponi, ma più pazienti con polmoniti interstiziali erano nei reparti già dal 10 febbraio segnalano fonti interne. Le vittime e i parenti sono a contatto senza che venga presa alcuna precauzione.
23 febbraio. Il pronto soccorso di Alzano Lombardo chiude per poche ore nel pomeriggio, poi viene sorprendentemente riaperto. Moltissimi tra medici, infermieri e personale degli ospedali contraggono il virus. Il racconto di due operatori sanitari [qui e qui] è agghiacciante.
25 febbraio. Il Direttore sanitario Marzulli scrive che «in queste condizioni il Pronto soccorso di Alzano Lombardo non può restare aperto»: ma questo non servirà a far cambiare idea all’Assessorato al Welfare della Regione Lombardia. In Consiglio regionale il Presidente Fontana invita a non drammatizzare: «il virus è poco più di una normale influenza». Quando il padrone tira la catena, i cani obbediscono.
27 febbraio. Matteo Salvini va dal presidente Mattarella a chiedere di «riaprire tutto quello che c’è da riaprire: l’Italia è un paese che soffre ma che vuole ripartire, adesso. Quando il padrone tira la catena, i cani obbediscono. Poi lancia su facebook il messaggio, che in seguito rimuoverà, ignorando che la rete conserva sempre memoria – infatti è qui:

Riaprire tutto quello che si può riaprire. Riaprire rilanciare fabbriche negozi musei gallerie palestre discoteche bar ristoranti centri commerciali. Quindi aprire aprire aprire per tornare a correre, tornare a lavorare

28 febbraio. Confindustria diffonde il video #Bergamoisrunning. Al minuto 0:53 viene detto che in Italia «il procedimento di screening sta procedendo ad una velocità maggiore che in altri paesi, dando una percezione fuorviante di percentuali di infezioni maggiori rispetto ad altri paesi»; al minuto 1:11, con involontario umorismo da grand guignol, viene detto delle imprese bergamasche che «All of Them are Running their own Business, as Usual». Contemporaneamente Confcommercio produce un altro video, #BergamoNonSiFerma, accolto dal plauso del sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Lo stesso atteggiamento è condiviso dal sindaco di Milano Giuseppe Sala. Quando il padrone tira la catena, i cani obbediscono. Anche a Piacenza, le istituzioni girano il video #PiacenzaNonSiFerma – anzi, due: uno dei quali prodotto da GEDI Visual, cioè Gruppo GEDI, cioè famiglia Agnelli-Elkann.
29 febbraio. Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, parla di «danno di immagine» con «l’Italia isolata» e la zona rossa «che crea danni economici anche alle altre aziende». Lo stesso 29 febbraio Bergamo e Piacenza riaprono: il sindaco di Bergamo Gori offre, al prezzo di una sola corsa, trasporti gratuiti per affollare il centro città; il centro di Piacenza è invaso da visitatori della bassa lodigiana.
8 marzo. La regione Lombardia, con la delibera regionale XI/2906, chiede alle strutture extra ospedaliere di «fornire il supporto all’assistenza dei pazienti durante la fase emergenziale». Luca Degani, presidente di UNEBA Lombardia, l’associazione di categoria che mette insieme circa 400 case di riposo, dichiarerà un mese dopo:

Chiederci di ospitare pazienti con i sintomi del Covid 19 è stato come accendere un cerino in un pagliaio: quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle.

Il resto è storia macabra, simboleggiata dalle bare portate negli inceneritori di altre regioni, con centinaia, forse migliaia di anziani morti senza entrare nelle statistiche ufficiali, e un clima di intimidazione di stampo cinese nei confronti dei lavoratori costretti all’omertà, come dichiara un infermiere di una casa di riposo della bergamasca a Francesco Brusa e Gaetano De Monte, che stanno svolgendo un notevole lavoro di indagine:

Tutti si scandalizzano per il medico di Wuhan, screditato e minacciato dalla polizia dopo essere stato il primo a lanciare l’allarme della Covid-19. La realtà, però, è che da noi non sarebbe andata troppo diversamente. Se io avessi denunciato pubblicamente i primi casi sospetti qua nella struttura, avrei rischiato il licenziamento e la radiazione dall’ordine. Noi infermieri e operatori non venivamo informati di nulla.

Nei due mesi successivi, il virus dilaga lungo l’asse dell’autostrada A21: il virus non si ferma ai confini amministrativi ma segue le grandi vie di comunicazione, produzione e scambio. Dietro l’apparente quarantena, mentre i media additano i podisti solitari come pericolosi untori, oltre 100.000 fabbriche restano aperte con una semplice autocertificazione. Quando il padrone tira la catena, i cani obbediscono: anche quelli governativi. Di fatto, la produzione in alcune zone d’Italia non si è mai veramente limitata alle attività essenziali: la Lombardia è la regione maggiormente a rischio per quanto riguarda regole di distanziamento e protezione a favore degli operai. Uno studio dell’INPS [qui], e uno studio dei ricercatori Francesco Finazzi e Alessandro Fassò [qui] dimostrano una correlazione precisa fra movimentazione della popolazione, giornate lavorative e diffusione del contagio: che rimane a tre cifre in Lombardia, mentre cala su tutto il territorio nazionale.

Sorry seems to be the hardest world: chiedere scusa sembra essere la cosa più dura, canta Elton John. Il presidente della regione lombarda Fontana e il suo assessore al Welfare Gallera sono ancora al loro posto: hanno detto che, potendo, rifarebbero tutto. Salvini se lo fa dire dai sondaggi, cosa fare: ed è ancora segretario di partito. Gori, Barbieri e Sala sono ancora sindaci di Bergamo, Piacenza e Milano. «Ci abbiamo messo qualche giorno di troppo a capire, abbiamo sbagliato anche noi, anche io. Eravamo preoccupati per il virus, ma anche per le attività economiche delle nostre città», ha detto Gori. Patrizia Barbieri ha chiesto di «comprendere la complessità della situazione e rendersi conto dello sforzo che l’Amministrazione Comunale sta facendo per sostenere la collettività». Beppe Sala ha detto che «in quel momento, lo spirito di Milano mi sembrava quello. Se ho sbagliato allora, oggi sono qua, tutti i santi giorni, per fare la mia parte».
Qualche giorno di troppo.
Rendersi conto dello sforzo.
Se ho sbagliato.
Il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi è stato appena eletto presidente di Confindustria, con 123 voti su 183. La sua antagonista non aveva abbastanza sangue sulle mani per essere ritenuta una buona garante delle politiche industriali nazionali dei padroni, del loro diritto di vita e di morte – il loro diritto a vivere, e a lasciar morire i lavoratori.

L’unica ad aver davvero chiesto scusa, anche per le colpe dell’opposizione di cui fa parte, è stata la consigliera regionale lombarda Carmela Rozza, infermiera di mestiere, il 20 aprile, quando ha denunciato in Consiglio Regionale le responsabilità della gestione politica della pandemia di coronavirus da parte delle autorità di governo, e dell’opposizione che fino al 20 marzo non ha denunciato le scelte politiche «drammatiche e criminali» che hanno contribuito in modo determinante a diffondere il virus negli ospedali in tutta la regione. Il suo intervento è qui – guardatelo, per favore:

È stato mandato in giro il virus in tutta la Lombardia trasformando tutti gli ospedali in strutture infette, invece di creare ospedali covid; le autoambulanze sono state mandate in giro in tutta la Lombardia, trasportando pazienti infetti per i corridoi di tutti gli ospedali; la sanità territoriale non è esistita in questi due mesi; la gente è morta in casa; le persone che sono morte in casa non avevano neanche le cure palliative; le persone che sono morte in casa non sono state registrate come malati covid. Siamo tutti responsabili, perché ancora adesso si sta facendo finta di organizzare la sanità territoriale. Se ancora ieri [19 aprile] ci sono stati altri 200 morti, è perché i malati vengono abbandonati da soli in casa e vengono ricoverati solo quando non ce la fanno più e i polmoni sono fottuti. Come fate a chiamare “eroi” medici e infermieri, se poi li fate lavorare anche se sono malati, e gli trattenete i soldi dallo stipendio quando si mettono in malattia perché hanno il covid?

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