L'inverno del nostro scontento
15 Ottobre 2019

È più pericoloso Erdoğan o chi ha combattuto l’Isis?

di Girolamo De Michele | 9 min

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Mi sono occupato del Rojava, della Comunità Democratica del Rojava e della resistenza delle Unità di Difesa del Popolo – YPG e delle Donne – YPJ contro il fascismo jahdista di Daesh e/o Al-Qaeda sin dalla nascita della nascita della Comunità Democratica: ad esempio, qui (su questo blog), qui e qui. Oggi il laboratorio democratico del Rojava è sotto l’attacco congiunto del fascista Erdoğan e dei fascio-jahdisti, responsabili dell’assassinio dell’attivista per i diritti delle donne siriane Hevrin Khalaf, che si batteva per la coesistenza pacifica fra curdi, cristiano-siriaci e arabi: non per caso, Bella Ciao risuona in curdo anche fra i partigiani delle YPG-YPJ.

Rilancio qui questo pezzo di Davide Grasso*, amico e compagno, partigiano combattente delle YPG, col quale ho più volte collaborato in iniziative pubbliche. Questo articolo è stato pubblicato sul sito Giap (grazie ai Wu Ming per avermi permesso la ripubblicazione).

Mentre Erdoğan bombarda quartieri e civili in Siria per costringere alla fuga i curdi; mentre l’Isis ne approfitta per alzare la testa con azioni, rivolte e attentati, e puntare a una rinascita; mentre dal mondo intero sale la voce che chiede rispetto per la pace relativa conquistata dalla Siria, dilaniata da otto anni di guerra che hanno causato mezzo milione di morti; mentre il mondo guarda con orrore ai centomila profughi provocati dalla guerra scatenata contro le Ypg-Ypj, che hanno perso 11.000 caduti sconfiggendo lo Stato islamico…

Mentre avviene tutto questo, in Italia, per iniziativa della procura di Torino, si convocano in tribunale gli italiani che hanno preso le armi contro l’Isis al fianco dei curdi siriani.

Una donna e due uomini, per essersi battuti in diverse forme e periodi contro l’Isis e il fondamentalismo islamico, dovranno comparire davanti a una sezione speciale del Tribunale di Torino martedì 15 ottobre.

Quali le accuse? Nessuna.

Quali i reati contestati? Nessuno.

La procura di Torino ha iniziato contro di noi in gennaio una procedura resa possibile da un complesso di norme introdotte dal regime fascista nel 1931 e incredibilmente mai espunte dall’ordinamento italiano, ma riadattata nel 1956 e nel 2011: quelle che disciplinano le «misure di prevenzione». Per quanto possa apparire incredibile, questa norma consente ancora oggi di limitare la libertà dei cittadini in via preventiva, senza accuse e senza processo.

La procura ha proposto in gennaio di espellerci da Torino e confinarci in altri comuni, imponendo il rientro notturno quotidiano presso le abitazioni di residenza, il sequestro di passaporto e patente e persino il divieto a parlare in pubblico o a riunirsi con più di due persone. Com’è possibile? E com’è possibile che una simile norma venga usata non contro i foreign fighters dell’Isis tornati o in via di ritorno, ma contro chi ha fatto quel che poteva per combatterli?

Secondo la pm Emanuela Pedrotta, che per questo procedimento si è coordinata con il capo della Digos torinese Carlo Ambra, aver combattuto per i curdi ci rende socialmente pericolosi perché il movimento curdo fa propria una critica del modello capitalistico di società. In una sorta di revival delle audizioni maccartiste americane della la guerra fredda, la pm non ha esitato ad attaccare le nostre idee in aula, leggendo stralci dei nostri libri e dei nostri articoli sulla Siria, senza rispetto alcuno per le esperienze non facili che abbiamo vissuto né per i fini per cui abbiamo lottato, oltre che per il principio della libertà di espressione.

In giugno la sezione speciale del Tribunale che si occupa di queste «misure di prevenzione» ha contestato le tesi della procura: aver combattuto con le Ypg-Ypj, l’esercito curdo, e far proprie idee critiche verso il capitalismo non è «di per sé» sintomo di «pericolosità sociale». Bene. Il carattere obiettivamente surreale della vicenda è però oggi accentuato dal fatto che, nonostante questo, Maria Edgarda, Paolo e Jacopo restano sotto la spada di Damocle della possibile applicazione questa misura, come ha scritto Zerocalcare. I giudici hanno infatti asserito che è necessario indagare su altri fatti, avvenuti dopo il loro rientro. Cosa avranno combinato?

Occorrerà appurare, dicono i giudici, se durante una festa di capodanno in solidarietà ai detenuti e in occasione un sit-in musicale davanti a un bar che non pagava un dipendente – episodi del 2018 dove i tre non hanno commesso alcuna violenza o reato di sorta – Maria Edgarda, Jacopo e Paolo abbiano utilizzato le competenze militari ottenute in Siria.

Avete capito bene: non soltanto eventi del tutto garantiti dalla libertà di manifestare – e animati da scopi, crediamo, più che giusti – sono considerati un problema, ma li si vuole collegare con la guerra in Siria e con un’acquisita «preparazione militare». Non è un po’ troppo anche per i livelli di assurdità cui i tempi recenti ci hanno abituato?

Tutto questo mentre la Turchia attacca i curdi anche con armi italiane e soldi europei e rischia di far scappare diecimila potenziali attentatori dell’Isis. Tutto questo mentre i neonazisti o suprematisti bianchi compiono stragi di ebrei e musulmani e gli estremisti italiani di destra detengono missili nei loro garage – qui in Italia.

Sappiamo che è difficile, per il lettore, credere che qualcosa del genere stia accadendo davvero. Ma è tutto verificabile, e vi invitiamo a venire ad assistere all’udienza di martedì 15 a Torino, alle ore 9.00, che sarà pubblica.

Una vicenda nata nella procura di Torino per criminalizzare il movimento curdo si è trasformata in un attacco alla possibilità di criticare le storture del nostro paese, con l’aggravante che, anziché accertare violazioni della legge con accuse circoscritte e processi, la procura insiste a richiedere una misura preventiva che è triste e scandalosa eredità del ventennio.

Se tutto questo nell’Italia di oggi è possibile, se questo avviene a partire dalla magistratura e dalle forze di polizia, è perché l’Italia è culturalmente malata. Per quanto si tratti di un caso circoscritto e in nessun modo paragonabile a quello che sta accadendo ai nostri compagni ora in Siria, illumina sulla possibilità stessa di ciò che sta accadendo al popolo curdo: il cinismo di un’America che usa le persone e poi le fa massacrare, o quello di un’Europa che foraggia di armi e denaro i massacratori per poi versare lacrime da coccodrillo, lo ritroviamo già nel disprezzo dei funzionari dello stato per le persone che hanno liberamente e orgogliosamente abbracciato quella causa.

Il muro che la Turchia ha costruito al confine con la Siria come cordone sanitario verso le politiche anti-fondamentaliste dei curdi e dei loro alleati arabi e cristiani nella Siria del nord è stato finanziato con sei miliardi di euro regalati ad Erdoğan dall’Unione Europea: soldi delle nostre tasse finite a disposizione di un regime che incarcera migliaia di insegnanti e giornalisti, rade al suo le sue stesse città per eliminare gli oppositori – Nusaybin, Cizre, Shirnak – e ora minaccia di mandare tre milioni e mezzo di profughi in Europa per vendicarsi delle critiche ricevute, come se non si trattasse di esseri umani, ma di pacchi postali.

Il cinismo, la brutalità e a follia del mondo di oggi, giustamente attaccati dall’ideologia rivoluzionaria e socialista del movimento curdo, possono portarci alla rovina. Non basta indignarsi davanti agli articoli di giornale, contribuire all’attenzione volatile di social network e mezzi d’informazione. È necessario attivarsi per i curdi ora, nelle strade e nelle piazze, perché nel nostro mondo tutto è interconnesso, e se la rivoluzione delle donne in Rojava viene schiacciata sarà una vittoria enorme per il fondamentalismo islamico e anche, di conseguenza, per gli xenofobi che non aspettano altro per alzare sempre più la voce in Europa.

È necessario chiedere che cessi ogni cooperazione militare e diplomatica, ivi compresa la vendita di armi, con la Turchia e il Qatar – che ha appoggiato l’invasione turca del Rojava.

Se il tribunale dovesse accogliere la richiesta della procura di Torino di espellere dalla loro città Maria Edgarda, Jacopo e Paolo, limitandone la libertà in modo inaccettabile e arbitrario, sarebbe un’onta per il nostro paese e un rischio per chiunque intenda usare lo spazio pubblico per dissentire rispetto alle ingiustizie dell’Italia attuale – ivi compresa la sua irresponsabile e ipocrita politica estera.

Davide Grasso ha pubblicato reportage indipendenti dagli Stati Uniti e dal Medio oriente e diversi articoli di filosofia dell’arte e teoria della realtà sociale. Nel 2013 ha pubblicato New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela per Stilo Editrice. Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno alla Federazione democratica della Siria del Nord. Nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere Daesh. La sua esperienza è raccontata nei libri Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, uscito per Edizioni Alegre nella collana Quinto Tipo curata da Wu Ming 1, e Il fiore del deserto. La rivoluzione delle donne e delle comuni tra l’Iraq e la Siria del nord, Agenzia X, Milano 2018.

Appello internazionale di solidarietà con il Rojava

A fronte del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, stabilito dal presidente Donald Trump e dal suo omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, e di fronte all’invasione militare contro i popoli liberi del Rojava che questo accordo permette, consideriamo necessario e improrogabile dichiarare quanto segue:

1. La Comune del Rojava rappresenta in Medio Oriente il primo progetto politico anticapitalista basato sul Confederalismo Democratico, che promuove una visione alternativa dell’organizzazione della vita, fondata sull’autonomia non statale, sull’autodeterminazione, sulla democrazia diretta e sulla lotta al patriarcato.
L’autonomia del Rojava è l’utopia di un mondo possibile, dove l’interculturalità, una differente e virtuosa relazione tra generi e il rispetto della madre terra vengono costruiti giorno dopo giorno. Il Rojava è la dimostrazione che non dobbiamo rassegnarci alla barbarie del presente.

2. Il primo risultato della lotta per l’autonomia del Rojava è stato il contenimento dello stato islamico e del suo fondamentalismo. Adesso, questo accordo debilita gli sforzi delle milizie curde, attentando contro i rilevanti risultati che i reparti delle YPG e YPJ hanno ottenuto fino ad ora contro lo stato islamico in Siria. Le milizie curde saranno infatti costrette a spostarsi, per proteggere il confine nord del Rojava dall’invasione turca.

3. La guerra contro l’autonomia del Rojava, costruito sulle macerie dello stato siriano, continua sistematicamente da anni: attacchi e invasioni territoriali sono stati la normalità. Con il ritiro delle forze militari statunitensi dal confine turco siriano, la pericolosità della minaccia sale di livello, l’ostilità dello stato turco contro chi lotta per un mondo democratico, si trasforma nella possibilità concreta di uno sterminio etnico.

Per questi motivi, noi firmatari di questa carta – accademici, studenti, attivisti, organizzazioni sociali, collettivi, popoli organizzati e in resistenza – manifestiamo la nostra solidarietà con la lotta dei curdi e dei popoli della Siria del Nord, e gridiamo la nostra rabbia contro questa ennesima aggressione capitalista e patriarcale dello stato turco, che avviene nell’assordante e complice silenzio dell’Unione europea e degli organismi internazionali, e dimostra come i Diritti umani vengano tutelati solo quando obbediscono alle leggi del mercato.

Difendere il Rojava significa difendere chi resiste ogni giorno, in medio oriente e in ogni parte del mondo, contro la barbarie che avanza. Questa carta è un grido di rabbia, indignazione e solidarietà con i nostri fratelli e sorelle curde, che lottano e muoiono in nome della libertà e della democrazia.

Que viva la vida! Que muera la muerte!

Il Rojava non è solo!

Primi firmatari:
John Holloway (Messico); Sergio Tischler (Messico); Jerome Baschet (Francia); Noam Chomsky (Usa); Sylvia Marcos (Messico); Jean Robert (Messico); David Harvey (Usa); Arjun Appadurai (Usa); Etienne Balibar (Francia); Teodor Shanin (Gran Bretagna); Barbara Duden (Germania); Michael Hardt (Usa); Marina Sitrin (Argentina); Carole Pateman (Usa); Donna Haraway (Usa); Raquel Gutierrez (Messico); Boaventura de Sousa Santos (Portogallo); Federica Giardini (Italia); Dora Maria Hernandez Holguin (Colombia); Francesca Gargallo (Messico); Massimo de Angelis (Gran Bretagna); Wu Ming (Italia); Toni Negri (Italia); Catalina Toro Perez (Colombia); David Graeber (Gran Bretagna).

Per nuove adesioni:

rojava.ekairos@gmail.com

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