L'inverno del nostro scontento
16 Ottobre 2014

La resistenza di Kobanê e i pizzicagnoli dell’anima

di Girolamo De Michele | 16 min

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Avviso: in questo pezzo chiamo DAESH, traslitterazione dell’acrostico arabo, quello che i media chiamano ISIS: un uso francese, che serve a non far risuonare né la parola “Stato” (giacché il califfato non lo è), né “Islam” (giacché questi fanatici clerico-fascisti stanno all’Islam come il Ku Klux Klan sta al cristianesimo). Inoltre (mi dicono) “DAESH” ha assonanza con una parola scurrile: la sua pronuncia è punibile nei territori occupati dal DAESH con 70 frustate.

kobane

[Nella foto: curdi guardano l’assedio di Kobanê dalla collina turca di frontiera – fonte: Umit Bektas/Reuters – New York Times]

Come l’Armata Rossa di Stalin immobile sulla Vistola davanti all’eroica insurrezione di Varsavia, nel 1944. Come l’esercito israeliano di Sharon, Begin e Shamir nel 1982, che lascia i macellai della falange cristiano-maronia entrare a Sabra e Chatila e perpetrare il genocidio palestinese. Come le “forze di pace” dell’ONU a Srebrenica nel 1995, immobili davanti al genocidio dei musulmani bosniaci compiuto delle armate serbo-bosniache. O, se preferite, come il monarca sabaudo che tentenna per quattro giorni sul Ticino nella speranza che l’artiglieria di Radetzky stermini gli insorti di Milano, nel 1848.
Mentre Kobanê resiste all’assalto dei macellai del DAESH, l’esercito turco assiste impassibile, impedendo ai guerriglieri curdi di Turchia (il PKK) di passare il confine e soccorrere una delle tre enclave della Comunità Democratica di Rojava. Esercito turco che sarebbe poi esercito della NATO: impariamo così che dentro la NATO c’è chi fa i propri (infami) interessi, e chi scodinzola servilmente quando il padrone fischia – ma che te lo dico a fare?

Nel risiko mediorientale, dove ogni azione apparente nasconde sempre un secondo fine, non è difficile capire che l’immobilismo o la solidarietà pro forma nascondono la speranza che i macellai clerico-fascisti del DAESH si facciano carico del lavoro sporco, cancellando l’esperienza della Comunità Democratica di Rojava. La stessa informazione “occidentale”, che riduce tutto a conflitto tra “comunità etniche”, nulla dicendo del Rojava – se non qualche servizio glamour sulle soldatesse delle Unità di Difesa delle Donne (YPJ), braccio femminile delle Unità di Difesa del Popolo (YPG), che casualmente vengono scoperte dopo tre anni proprio quando una grande firma della moda a basso costo lancia una linea ispirata alle loro divise [→ qui, invece, un bel documentario sulle donne combattenti del Rojava].
Come se il Rojava e le sue Unità di Difesa fosse spuntata come un fungo, dall’oggi al domani.
Come se gli stessi macellai del DAESH – sconfessati, c’è bisogno di ricordarlo? (si, c’è bisogno: perché da mesi circolano tweet razzisti che affermano che il contrario) dai musulmani di tutto il mondo – fossero venuti giù con la piena dall’oggi al domani. Come se le loro atrocità fossero una novità recente. Come se fossero sempre stati “brutti e cattivi”.

Il Rojava – Comunità Autonoma Democratica di Afrin, Cizre e Kobane esiste da quasi tre anni ed è, si legge nel primo articolo della loro → Carta del Contratto Sociale (la loro Costituzione: prendetevi mezz’ora di tempo e leggetela, c’è molto da imparare) “una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni”:

“Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli.
Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale.
Con questa Carta, si proclama un sistema politico e un’amministrazione civile fondata su un contratto sociale che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso una fase di transizione che consenta di uscire da dittatura, guerra civile e distruzione, verso una nuova società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale”.

Kobane-sta-cadendoIspirata ai principi delle Comunità Zapatiste del Chapas, la Comunità di Rojava riconosce le più avanzate conquiste politiche e sociali del diritto universale: libertà di pensiero, parola, tutela dell’ambiente, diritti inalienabili delle donne e dei bambini, giustizia sociale, federalismo, divisione dei poteri, diritto a manifestare liberamente la propria identità etnica, religiosa, di genere, linguistica e culturale, diritto di vivere in un ambiente salubre, basato sull’equilibrio ecologico, diritto alla vita e abolizione della pena di morte. «Se si vuole capire perché il Gran Califfo dell’Orrore vuole distruggere Kobane», scrive Lanfranco Caminiti, «bisogna partire da qui. Lasciate perdere lo scontro di civiltà, lasciate perdere la faglia di frattura dell’islamismo, tra sunniti e sciiti».
I fanatici jahdisti credono di conquistarsi il paradiso con la loro cieca e ottusa barbarie, nel Rojava il paradiso si cerca di portarlo sulla terra, per tutti.
Non è un’utopia: il Rojava si autogoverna secondo questi principi da due anni, e, in base al diritto di asilo, accoglie profughi provenienti dalla Siria e dall’Iraq. E combatte per difendere i loro territori: sono i combattenti dell’YGP ad aver difeso gli Yazidi, mentre i peshmerga filo-occidentali del Kurdistan iracheno si disinteressavano di loro (ma non dei pozzi petroliferi di Bai Hassan). Eppure al Rojava, che da tre anni difende i propri confini e le proprie popolazioni dalle milizie jahdiste, non una sola arma, non un solo genere di soccorso alimentare o sanitario è stato dato da noi occidentali, che la democrazia al massimo la esportiamo con le armi, ma non sopportiamo che qualcuno se la crei da sé. E magari ci dia lezioni di democrazia.

Ecco la prima delle ipocrisie delle potenze occidentali in Medio Oriente: all’indomani delle rivoluzioni nelle piazze del Cairo e di Tunisi, esse avrebbero potuto – e dovuto – supportare con ogni mezzo i movimenti democratici che avevano rovesciato i dittatori (filo-occidentali), per impedire che la fratellanza Musulmana, con la propria maggiore organizzazione e ricchezza, vincesse le elezioni. Ma la Fratellanza Musulmana prometteva (e così è stato) il mantenimento degli accordi internazionali – soprattutto quelli “non pubblici” (stipulati dai dittatori deposti: ma per parafrasare un noto motto della politica statunitense, erano dei figli di p*****a, ma erano i “nostri” figli di p*****a), e il rispetto degli accordi dell’OPEC (che era, ricordiamolo, una congrega di tiranni) sulle quote di produzione del petrolio (e, ciliegina sulla torta, in Egitto la Fratellanza garantiva di mettere la mordacchia ad Hamas). Volete mettere il rischio che un parlamento democratico cominciasse a ridiscutere gli accordi che mantengono il popolo in condizione di miseria (arricchendo i governanti corrotti), o che quantità e prezzo del petrolio venissero tarati sul bisogni del popolo, e non sui profitti delle multinazionali? Che una diversa politica petrolifera, per dire, facesse tornare il prezzo del petrolio ai livelli precedenti l’invasione dell’Iraq – circa 40$ al barile, contro gli 85$ attuali?
Del resto, le compagnie petrolifere (quelle che un tempo si chiamavano “le sette sorelle”), con la loro diplomazia parallela e la loro esperienza nel trattare simultaneamente con più fazioni in lotta, hanno meno problemi a rapportarsi con paesi instabili e frammentati, che con governi ostili alle loro politiche.

Poi è “esplosa” la rivolta in Siria. Che era già intuibile alla fine del 2006, di fatto evidente ben prima del 2011 (quando i nostri ministri degli esteri e della difesa, invece di chiedersi quali effetti avrebbe provocato nel Mediterraneo una guerra civile in Siria, si interessavano a una casa a Montecarlo, o alla presunta discendenza del tiranno egiziano): ma si sa, non sta accadendo finché non lo vedi in televisione. Vale la pena di ricordare che la protesta, al suo avvio nell’aprile 2011, era contrassegnata dai cosiddetti “tre no”: “no alla violenza, al settarismo, alle ingerenze esterne”. Tra il 2011 e il 2012, soprattutto con il “Piano Kofi Annan”, la crisi siriana poteva trovare un ragionevole compromesso democratico [vedi → questa analisi, sul Guardian, di un leader dell’opposizione]: ma al sostegno formale al piano Annan delle potenze regionali non è seguito alcun concreto appoggio (lo ha riconosciuto persino → Hillary Clinton, di recente). A Turchia e Arabia Saudita interessava rovesciare il regime di al-Asad, alla Russia di mantenerlo senza compromissioni con l’opposizione, per Stati Uniti e Israele la priorità era l’indebolimento dell’Iran attraverso la destabilizzazione permanente della Siria [vedi l’analisi di → medarabsnews]: delle richieste di democrazia del popolo siriano, della democrazia come valore e come pratica politica, non importava ad alcuno. Neanche a “noi” occidentali – ma di nuovo, che te lo dico a fare?

Oil_Chart_Last_Ten_YearsFermiamoci un attimo per un primo bilancio: agli arabi, le potenze coloniali occidentali hanno negato il diritto ad uno stato unitario all’indomani della Prima guerra mondiale, come gli era stato promesso se avessero combattuto contro l’esercito turco – e gli arabi non solo avevano combattuto, ma avevano sconfitto l’Impero Turco riconquistando di fatto l’indipendenza; li avevano assoggettati ad una nuova colonizzazione basata su confini tracciati sulla carta (che oggi vengono strumentalmente messi in discussione dal DAESH); hanno poi negato il diritto a sviluppare un’originale esperienza di “socialismo arabo” negli anni ’50-’60 – quando persino in Israele un partito come il Mapam parlava di fratellanza e lotta comune tra socialismo arabo e israeliano – insediando uno dopo l’altro una serie di dittatori che hanno garantito lo statu quo. Infine, nel 2011, le potenze occidentali hanno storto il naso davanti alla pretesa di democrazia che da piazza Tahir si era estesa fino a piazza Taksim e Gezi Park, nel cuore di Istambul: possono le stesse potenze tollerare un’esperienza democratica espansiva, che rimetterebbe in discussione i confini tracciati sulla carta – a partire dall’unificazione della nazione curda? C’è del petrolio sotto i piedi dei curdi, ricordiamolo: e se la fonte del potere, piuttosto che dalla canna del fucile, nasce dall’uso delle parole (come ci ha ricordato l’altra sera Claudio Lolli), è altrettanto vero che la fonte della repressione spesso sgorga dalla pompa di benzina.

Le speranze di un compromesso democratico in Siria sono morte nella primavera del 2012 con le prime autobomba, che segnano l’ingresso in Siria delle milizie jahdiste. Sull’origine delle quali (e sui loro conflitti interni) permangono molte zone d’ombra. Resta il fatto che queste milizie finiscono con l’assorbire buona parte delle forze armate anti-regime, e ad impossessarsi – pur senza aviazione né copertura aerea – della Siria orientale, dalla quale l’esercito siriano si ritira. E, come “oppositori” del regine di al-Asad, vengono appoggiate, rifornite di armi, addestrate alla guerriglia urbana dall’Occidente, che finge di non sapere che la sigla del Libero Esercito Siriano (FSA) è una scatola ormai svuotata e riempita dagli jahdisti.
Ma i nemici del mio nemico sono miei amici: anche se questi “amici” massacravano e decapitavano.
Le loro atrocità erano denunciate dalla stampa internazionale (ad esempio: → Der Spiegel del 30 marzo 2012, → Daily Mail 31 dicembre 2012, → Bloomberg 4 giugno 2013); i video delle decapitazioni (i cui link NON vi fornirò) erano riportati (ad es. da Human Rights Watch, attraverso il giornalista Zaid Benjamin; dall’osservatorio militare Military Network; dal Centro Ricerche sulla Globalizzazione Global Research); i nomi dei giornalisti uccisi o rapiti dagli jahdisti – così come quelli uccisi o incarcerati dal regime di al-Asad – erano riportati da Reporters without Borders e dal Committee to Protect Journalists: ma erano giornalisti arabi, non occidentali, e i giornalisti saranno anche loro tutti uguali, ma quelli arabi sembra siano meno uguali degli altri…
Infine, Human Rights Watch produceva il rapporto → “You can still see their Blood” (11 ottobre 2013). Ma anche HRW è attendibile solo quando denuncia i crimini di guerra dei “nemici dell’Occidente” come Hamas e DAESH: quando fa lo stesso con Israele o con gli “alleati” del FSA, l’Occidente gira la testa dall’altra parte e fa finta di niente.
E quindi capita che Obama nel maggio 2013 invii in missione John McCain, [→ qui la notizia su CNN] per incontrare i leader di una ormai fantomatica “opposizione siriana” che sta ormai passando armi e bagagli nelle file di al-Nusra e del DAESH (giusto oggi, 14 ottobre, vengono rese note le immagini di miliziani del DAESH che usano il sistema di difesa antiaerea portatile FN-6, un’arma fornita alla “opposizione siriana”, per abbattere di un elicottero Mi-35M dell’esercito iraqeno presso Bayji).

KkkPoi succede che il DAESH ribalta le alleanze, o forse si prende gioco dei suoi antichi protettori (o forse no), o forse accade che il mostro sfugga dalle mani di Frankenstein – e soprattutto, entra pesantemente nel mercato del petrolio, guarda caso dopo la decisione del governo sunnita di Baghdad di riportare la produzione petrolifera iraqena al livello precedente l’invasione e di concedere lo sfruttamento del petrolio di Badrah a Gazprom Neft, facendo entrare l’alleato russo nel gioco del petrolio. “Iraq will have to return to OPEC’s quota system. It will be interesting to watch at which production level that will be agreed upon and whether Iraq will adhere to it”, scriveva nel marzo 2014 l’osservatorio sul mercato petrolifero Resilience.org: bene, lo stiamo vedendo adesso!
Naturalmente siete liberi di credere alla favola del DAESH che vende petrolio al mercato nero, e non alle compagnie petrolifere; siete liberi di pensare che in una teorica situazione di instabilità il fatto che il prezzo del petrolio non s’impenni – e anzi conceda margini per manovre speculative al ribasso – sia un’inspiegabile bizzarria; siete liberi di pensare che le lagnanze delle compagnie petrolifere per la troppa burocrazia iraqena che intacca i profitti non siano in relazione con l’improvvisa invasione dell’Iraq sunnita e l’attacco ai giacimenti del nord Iraq.
Siamo sinceri: è molto più consolante dividere il mondo in buoni e cattivi, e decidere che tutti i cattivi sono da una sola parte – da quella dei musulmani, poniamo. È più facile decidere che i cristiani sono cristiani quando sono vittime, mentre sono croati, serbi, ustasha, hutu, generali argentini o cileni, falangisti libanesi quando sono carnefici; e che i musulmani sono musulmani quando sono carnefici, e sono bosniaci, kosovari, palestinesi, sunniti quando sono vittime, piuttosto che pensare che il controllo della benzina che circola nelle nostre auto e nei nostri impianti di riscaldamento c’entri qualcosa. Ve lo ricordate, vero, il finale de → I tre giorni del Condor? Ma quello era cinema, finzione…

Infine il DAESH inizia un’attività di marketing e di self-published, con video di buona fattura tecnica e riviste patinate con foto d’agenzia, che → Serge Quadruppani ha definito “islamismo twitter e gore YouTube“: e tutti si indignano.
Per l’inconcepibile violenza degli jahdisti, per la brutalità, per il barbaro ritorno delle decapitazioni?
No: perché ci sono dei video che dicono: devi indignarti!
Perché lo si vede in televisione, o sul web.
Perché, ricordate: finché non viene mostrato in televisione, o sul web, non sta accadendo.

Il vecchio Hegel, che ogni tanto ci prendeva (in questo caso parafrasava il discorso di Krishna ad Arjuna, nella Bhagavad Gītā), lo aveva detto a chiare lettere: se non riuscite a guardarla dal punto di vista della provvidenza, la storia vi apparirà un banco di macelleria. Io, confesso, la provvidenza non riesco a vederla (se ne siete capaci, buon per voi): vedo solo il macello sanguinante.
Quello che sta accadendo oggi in Siria e Iraq è quello che accadeva ieri in Siria, e poco prima nei Balcani, o nel Rwanda. Compreso l’uso del terrore per svuotare le città, occupare le case abbandonate e riassegnarle alla propria fazione. Comprese le decapitazioni, che non sono mai scomparse dalla storia: il genocidio del Rwanda, compiuto dagli Hutu (con la fattiva complicità del clero cattolico locale) contro i Tutsi, fu compiuto prevalentemente con l’uso del machete; durante le guerre balcaniche le foto di miliziani che sventolavano teste mozzate circolavano in abbondanza (e, se avete voglia di andare un po’ più indietro, anche durante l’occupazione nazifascista della Jugoslavia, nel 1941-43).
Rendere in schiavitù, vendere e stuprare una donna è un atto di una infinita barbarie, su questo siamo tutti d’accordo (non è vero, ma fingo di crederlo): ma qual è la differenza rispetto a farla stuprare da un cane nello stadio di Santiago del Cile, o stuprarla, vendere il suo bambino a una coppia della borghesia argentina, e gettare la madre da un aereo nell’Oceano? (in effetti una differenza c’è: è → in queste foto).
C’è che in un caso non possiamo non vedere e non sapere, perché i carnefici (e anche i loro avversari), per diverse ma convergenti ragioni, hanno interesse a farci sapere: pensate al colpo di genio mediatico della – presunta – “N” sulle case dei cristiani a Mosul, del tutto inutile per chi controlla una città e i suoi archivi catastali, ma di impatto mediatico globale indubitabile. Nell’altro caso, avevamo licenza di mettere la testa sotto la sabbia, e la maggioranza di noi l’ha fatto.

Così come la maggioranza di noi mette la testa sotto la sabbia e ignora, o finge di ignorare, o fa il possibile per ignorare, cos’è oggi la Libia.
Quella Libia dalla quale, come in un collo di bottiglia, sono costretti a passare i migranti che vediamo arrivare dal Mediterraneo.
Quella Libia che i migranti descrivono come “l’inferno sceso sulla terra”, nella quale accadono le stesse cose dell’Iraq e della Siria – perché una volta che t’hanno schiavizzato, stuprato, ammazzato e fatto a pezzi, cosa importa se è stato uno jahdista o un bandito?
Quella Libia nella quale certi clandestini della civiltà, extracomunitari del genere umano, sostengono si debbano rispedire, o bloccare, i migranti in fuga, fregandosene bellamente della sorte dalla quale sono sfuggiti, e che toccherebbe loro. Fingendo di non sapere che di quei profughi migliaia sono quegli stessi siriani e iraqeni di cui si invoca la protezione contro la barbarie del DAESH.
quanto_mi_costiMa si sa: diritti, valori “occidentali” e “cristiani”, principi morali vanno bene come slogan propagandistici, e soprattutto finché non costano nulla. Perché, diciamocelo, tra gli svantaggi della democrazia, e anche della fratellanza, c’è che non sono gratis: ma se c’è da rimettere in discussione i nostri privilegi ottenuti sulla pelle altrui, allora i campioni dell’Occidente s’inalberano, mostrando il loro vero volto di pizzicagnoli dell’anima.
Che affettano l’etica come la mortadella, sottile sottile, che così sembra di più.
Che la pesano facendo la tara del foglio di carta oleata, che non venga a costare un centesimo in aggiunta.
Che ad ogni sottile fettina di principio morale che gli tocca pagare si chiedono “ma quanto mi costi?”, che per loro Cristo si è fermato non ad Eboli, ma → a fare una telefonata.
Che sono incapaci di vedere un essere umano quando guardano un profugo.
Che sono il vero carcinoma della nostra società.

Mentre i macellai del DAESH scannano davanti alle telecamere dei loro splatter movie e hanno le mani sporche del sangue delle vittime, i nostri macellai per procura chiedono che i macelli siano spostati un filo oltre il campo visuale delle telecamere, e delegano altri allo scannamento. Le loro mani sono pulite: come sepolcri imbiancati.

Quanto ci costano, in termini di degrado dell’etica, di imputridimento della coscienza civile, di marcescenza dei principi di solidarietà, compassione, fratellanza?
Ma in fondo, anche loro sono parte del piano di dio, se mai ne esistesse uno: sono il volto visibile dell’ipocrisia che appesta la nostra vita. Il senso della loro esistenza è che guardandoli, sappiamo cosa siamo sempre a rischio di diventare, se non riuscissimo più a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, e fossimo incapaci di tracciare una netta linea di demarcazione fra il campo del nemico e noi. Perché, come ci insegna → il Poeta,
Il nemico marcia con i piedi nelle tue stesse scarpe.
Quindi anche se le tracce non le vedi
è sempre dalla tua parte.

Appendice

Segnalo, sul Rojava, altri testi che vale la pena di leggere:

Il portale → Kurdish Question
Sardar Saadi, → La rivoluzione in Rojava: costruire autonomia nel Medio Oriente
Martin Glasenapp, → La Rojava è un’opportunità reale
Wu Ming, → La guerra all’#ISIS, il ruolo del #PKK e la zona autonoma del #Rojava
Sandro Mezzadra, → Kobanê è sola?
Iskender Doğu, → Hope and despair grips Kurds as Kobanê continues to resist
Paola Rudan, → Viviamo, impariamo e combattiamo. Le donne di Kobane sul fronte delle contraddizioni
Lanfranco Caminiti, → Come alle Termopili, i curdi resistono a Kobane

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