Attualità
7 Ottobre 2019
A Internazionale il confronto tra studiosi di Cina e giornalisti sulle proteste: "I manifestanti vogliono difendere la loro identità, ma i costi umani sono alti"

Rivolte a Hong Kong: “Si sta sviluppando un disastro sotto ai nostri occhi”

di Redazione | 4 min

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“Quando abbiamo deciso di organizzare questo panel i tempi non erano sospetti: a Hong Kong le proteste non c’erano ancora e invece adesso vanno avanti da quattro mesi, la polizia era nota nella regione per essere ‘gentile’, e invece la situazione adesso sta degenerando. Ora l’origine delle proteste è passata quasi in second’ordine”.

Così Junko Terao, editor per l’Asia di Internazionale, ha presentato domenica mattina in Sala Estense il confronto tra studiosi di Cina e giornalisti sulla ‘rivolta delle periferie’, intese non come zone suburbane ma come territori distaccati – più o meno formalmente – dalla Cina continentale che lottano contro l’erosione della libertà come nel caso di Hong Kong, attendono le prossime mosse del governo centrale per quanto riguarda invece Taiwan o subiscono direttamente la repressione delle autorità come gli Uiguri musulmani.

E il timing calza a pennello con una discesa verso il caos della situazione nell’ex colonia britannica, dove le manifestazioni non autorizzate in questi quattro mesi sono state 13, gli arresti 2022, le bombole di gas lacrimogeno lanciate dalle forze di sicurezza superano il migliaio al giorno e la recentissima applicazione dello stato di emergenza per impedire ai manifestanti di coprirsi il volto va letta come un altro punto critico delle proteste a venire.

I conti freddi del costo umano delle manifestazioni sono di Louisa Lim, docente di giornalismo all’università di Melbourne ed ex corrispondente di Npr e Bbc dalla Cina. “Sono stata lì per l’evoluzione delle proteste”, racconta, “ed è come se si stesse sviluppando un disastro sotto ai nostri occhi, specialmente per quanto riguarda la libertà di protestare. La legge contro l’uso delle maschere, che grazie all’ordinanza emergenziale non usata dal 1967 è stata emanata dall’autogoverno di Hong Kong per decreto, è una cosa che i sostenitori di Pechino volevano da tempo. Eppure vediamo che, nonostante le multe e il rischio di un anno di prigione, le persone sfidano il divieto e i manifestanti resistono”.

Tutto questo però ha un costo, prima di tutto umano: “Tutti questi eventi hanno cambiato il modo di vivere: sono state sospese le corse della metro, chiusi i parchi pubblici e i supermercati. In molti cercano di prelevare contante dagli sportelli automatici a causa dell’incertezza per il futuro. Bisogna anche pensare al modo in cui ci si veste quando si esce di casa, perché le manifestazioni hanno adottato il colore nero oppure perché i leader della protesta hanno chiesto ai manifestanti di mettersi la camicia nei pantaloni per distinguersi dagli agenti in borghese che non possono farlo avendo addosso le armi. C’è anche un coprifuoco di fatto, e il fatto che i giovani e gli studenti corrispondano rispettivamente al 25 e al 38% degli arrestati ha fatto sì che il sostegno alla protesta da parte della popolazione si attesti sopra il 70%, compresi gli anziani che sentono di aver provato senza successo qualsiasi cosa e ora accettano anche le tattiche più violente dei manifestanti”.

“Una delle cose importanti da capire è che in questa protesta i manifestanti rivendicano la loro identità di Hong Kong e non quella cinese”, spiega invece Jeffrey Wasserstrom della University of California ad Irvine. Per questo, aggiunge, “sia la protesta che la risposta cinese rientra nella tradizione come quella di Tienanmen. Nell’89 una delle richieste dei manifestanti era quella di essere riconosciuti come non violenti, e quindi dall’inizio le autorità hanno provato a definire le proteste come scontri. Spesso in Cina poi le proteste che partono da una richiesta tendono ad allargarsi fino a diventare proteste per chiedere di poter protestare. Il movimento ormai è diventato quello che vuole difendere la diversità di Hong Kong dalla Repubblica Popolare Cinese. È un po’ come la storia della rana nell’acqua, che si abitua alla temperature che sale fino a morire, ma dal 2014 la temperatura di quell’acqua si è alzata molto più rapidamente e con la storia della legge sull’estradizione la gente si è resa conto che le cose erano cambiate”.

“Anche Taiwan guarda a cosa succede ad Hong Kong”, spiega infine Brian Hioe di New Bloom, un magazine su Taiwan. “C’è grande emotività ed è difficile prevedere quello che potrebbe succedere in futuro ma c’è senz’altro sostegno da parte di Taiwan ai manifestanti. C’è sempre stato un contratto stretto tra il processo di democratizzazione da una parte e le reazioni che ci sono adesso. La stessa Hong Kong ha guardato a Taiwan come un paese abbastanza simile, un po’ ci si conosceva e anche nel 2014 alcuni taiwanesi sono andati a protestare ad Hong Kong nonostante i rischi. Il timore delle autorità cinesi è che questi protestanti possano unirsi e protestare insieme”.

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