Attualità
9 Marzo 2019
A quale versione della storia sul bail-in raccontata dall'organo di vigilanza dobbiamo credere? A quella del 2016 o a quella del 2019?

Carife. Se Bankitalia smentisce se stessa

di Daniele Oppo | 5 min

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La sede della Banca d’Italia a Roma (foto di Lalupa/CC BY SA 3.0)

A quale Bankitalia dobbiamo credere quando si parla della messa in risoluzione di Carife (e delle altre tre ‘banchette’)? A quella che dal 2016 ci racconta ufficialmente – sul suo sito web – che il bail-in ha permesso di evitare gli ancor più disastrosi effetti dell’imminente liquidazione coatta amministrativa; o a quella che oggi ci racconta che l’applicazione della normativa del bail-in è stata affrettata, lasciando intendere che i danni per i risparmiatori coinvolti vadano ricercati ai piani alti dell’Europa e che fossero del tutto evitabili con benefici per tutto il sistema?

Il dubbio viene dopo aver letto le dichiarazioni del responsabile della vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, che intervenendo all’Università di Modena ha affermato che l’applicazione del bail-in “è stata affrettata” e che oggi  “è pressoché inapplicabile e rischia di minare la fiducia nelle banche e generare instabilità”.

Un’affermazione che non può non lasciare di stucco e probabilmente innervosire chi è rimasto vittima non solo del bail-in in sé ma anche di una sua applicazione anticipata. Ancora di più se poi ci sono letture discordanti della stessa, in teoria autorevole, fonte.

La stessa Banca d’Italia, infatti, in una sua pagina ancora online, racconta una storia diversa, ovvero che

“la soluzione adottata il 22 novembre – certamente non indolore – è quella che, considerati i vincoli e le norme esistenti, ha consentito di minimizzare l’onere dell’intervento, salvaguardando al meglio i diritti dei depositanti e dei creditori”

Secondo Bankitalia:

“questo ha consentito di evitare il sacrificio di molti altri creditori, in particolare degli obbligazionisti e degli altri creditori non subordinati, come sarebbe avvenuto se la risoluzione avesse avuto luogo dopo il 1° gennaio 2016 o se si fosse avviata, in alternativa, la liquidazione coatta amministrativa delle banche”

La Banca d’Italia racconta ufficialmente che la soluzione della risoluzione con azzeramento per azionisti e obbligazionisti subordinati era, al tempo, la scelta meno dolorosa possibile. Questo perché l’alternativa praticabile, a diritto vigente, sarebbe stata non dolorosa, ma disastrosa perché avrebbe comportato l’azzeramento di fatto di tutto: dalle azioni ai depositi, con il richiamo dei prestiti in tempi brevissimi, con conseguente collasso del sistema produttivo. Vale la pena riportare per intero quanto afferma lo stesso organo di vigilanza:

L’altra alternativa era una liquidazione coatta amministrativa. In tal caso, le azioni e i crediti subordinati – i primi ad assorbire le perdite nella gerarchia fallimentare – avrebbero pure subito la svalutazione integrale del loro valore, dato l’ammontare delle perdite. Inoltre, la procedura di liquidazione, per sua natura, distrugge ricchezza in quanto è basata non sulla conservazione delle attività, ma sulla loro liquidazione attraverso azioni di recupero o cessioni sul mercato in tempi brevi e perciò a prezzi necessariamente molto bassi. Questo avrebbe quasi sicuramente intaccato i diritti anche dei creditori non subordinati, compresi i depositi non assicurati, leso le funzioni critiche essenziali (ad esempio, il credito alle imprese e il sistema dei pagamenti), causato la perdita di posti di lavoro. In definitiva, le perdite sarebbero risultate superiori rispetto a quelle emerse con la risoluzione.

Non è finita, perché nella critica di Barbagallo alla direttiva 2014/59 Brrd (Banking Recovery and Resolution directive), quella con cui è stato introdotto il bail-in, lo stop arrivato dalla Commissione Ue all’uso del Fondo interbancario per la tutela dei depositi (il Fitd) avrebbe interrotto, secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, “una solida tradizione nazionale di gestione delle crisi – che avrebbe potuto essere utilizzata rendendo, ad esempio, molto meno oneroso l’intervento di risoluzione delle “quattro banche” – senza fornire, al contempo, strumenti alternativi ugualmente efficaci».

Solida tradizione che evidentemente riesce a far dimenticare anche a Bankitalia la crisi delle banche post 2008 (soprattutto dal 2011) che hanno portato l’Europa a cercare di limitare da un lato il contagio sistemico e dall’altro che fossero i contribuenti a pagare le mancanze degli istituti, cercando di limitare gli aiuti di stato a casi particolari e con effetti limitati nel tempo.

Ma, tornando al caso specifico, che il Fitd non potesse intervenire con le modalità intese allora (e anche oggi, pare) non lo stabilisce certo dal nulla la Brrd, bensì la normativa europea del 2013 sugli aiuti di stato in caso di crisi bancarie. E si sapeva già da tempo che la Commissione Ue considerava l’intervento del Fitd così come intesso dalle autorità italiane un aiuto di stato.

Nel caso delle 4 banche la stessa Bankitalia spiegava che il meccanismo di burden sharing – quello introdotto nel 2013 – operava proprio coinvolgendo azionisti e obbligazionisti subordinati prima di un intervento statale:

La normativa in vigore fino alla fine del 2015 permetteva l’applicazione del cosiddetto burden sharing: in caso di dissesto di una banca era previsto che prima del coinvolgimento di fondi pubblici venisse attuata la riduzione del valore nominale delle azioni e delle obbligazioni subordinate (o la conversione in capitale di queste ultime).

Con il caso Tercas (per il cui salvataggio tramite il Fitd la Commissione aprì una procedura d’infrazione e poi l’intervento venne di fatto annullato, ricorrendo a una soluzione di mercato) si sapeva già qual era la posizione dell’Europa, si è voluta forzare forse la mano senza il coraggio di portare l’azione avanti, arrivando senza alternative fino all’ultimo momento utile. L’alternativa percorribile al tempo, già dagli inizi del 2015, e non alla fine della corsa, era quella di utilizzare il cosiddetto ‘schema volontario’ del Fitd o mettere le banche in cordata, come con Atlante (che poi fossero soluzioni davvero efficaci e prive di effetti collaterali rimane altra questione).

E anche nel primo caso sarebbe necessario che si facesse chiarezza, perché se è vero, come è stato raccontato, che il Fitd era pronto 4 giorni dopo la messa in risoluzione di Carife, allora è falso quanto scrive ancora Bankitalia sul fondo volontario:

I lavori di costituzione dello schema sono iniziati il 22 novembre 2015 e sono terminati il 25 gennaio 2016.

A chi dobbiamo credere? A quale storia dobbiamo credere? Che sia la politica a fare teatrino e dare versioni alternative di una tragedia che ha colpito migliaia di famiglie forse lo possiamo ancora accettare, sta nelle regole del gioco. Che però sia un organismo tecnico d’importanza fondamentale a offrire ogni volta un racconto diverso, mutevole a seconda della platea e dello spirito del tempo, sembra invece molto meno accettabile. E non possiamo accettarlo, se non per il rispetto delle istituzioni che si rappresentano, si racconti la verità almeno per il rispetto che si deve alle persone che in tutto questo hanno perso dei soldi, in alcuni casi tutto, e ancora non sanno quale sia il loro destino.

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