Cronaca
29 Gennaio 2019
L'arringa difensiva per l'ex presidente del Cda: «Voleva salvare la banca, è stato lì nei tra anni peggiori ed è stata sua la responsabilità?»

Carife. «Lenzi galantuomo, azzerato che dovrebbe stare tra le parti civili»

di Daniele Oppo | 5 min

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Da destra: l’ex presidente del Cda di Carife Sergio Lenzi e l’avvocato Massimo Mazzanti

Il crac della Carife non può essere visto come se fosse un’istantanea, immobile nel tempo, ma va visto come un film, nella sua sfortunata dinamicità. E in questo film uno dei protagonisti principali è Sergio Lenzi, ex presidente del Cda, «galantuomo che pur di non vendere azioni della banca le ha perse tutte, ha fatto un mutuo per comprare la casa e non venduto le azioni, perché è persona corretta, solida di principi, mai avrebbe pensato di trovarsi in una situazione del genere, voleva salvare la banca, è stato lì tre anni, nei tra anni peggiori, ed è stata sua la responsabilità?». No, perché in «altro non ha fatto che adempiere agli oneri statutari, rivolgersi agli enti che lo chiamavano, cercare compratori, ispirato alla massima buonafede con massima disponibilità».

Innocente, insomma, nella lettura critica che la sua difesa – avvocati Massimo Mazzanti e Marina Gionchetti – fanno della sceneggiatura scritta dalla procura nel suo capo d’imputazione in quella che è stata l’udienza conclusiva dedicata alle arringhe difensive nel processo per la bancarotta Carife che sarebbe derivata dalla operazioni di aumento di capitale del 2011.

E come le altre difese prima, anche quella dell’imputato più importante (e presente in aula) contesta le basi stesse dell’accusa, arrivando a dire – con l’avvocato Gionchetti – che Lenzi «aveva un bel pacchetto azionario, è un azzerato e come azzerato dovrebbe sedere là dietro, insieme alle parti civili».

Lenzi, afferma il collega Mazzanti (che ha citato anche il supporto, inatteso, arrivato da Giovanna Mazzoni), da presidente della Fondazione qual era, «diventa presidente di Carife perché è stato pregato dai consiglieri, perché la missione era salvare la banca per riprendere i trasferimenti che avrebbero consentito quegli interventi sul territorio che la città aspettava, perché li aveva sempre avuti». Fondazione il cui ruolo «è stato enfatizzato e mitizzato in questa vicenda, con un taglio negativo e malizioso». Il riferimento è alla ‘musica di sottofondo’, per rimanere nella metafora cinematografica usata dal legale, della tesi accusatoria: la volontà di preservare la maggioranza della Fondazione, la ferraresità della banca dunque, è stato il cardine dello sfascio finale, mentre per la difesa, la ferraresità «non è altro che il portato di un onere statutario». La vera musica, semmai, suggerisce il legale, dovrebbe essere quella della crisi economico-finanziaria, che ha colpito il Paese e ha colpito la Carife, già gravata da problemi tutti suoi, e deve dunque essere «punto centrale, nevralgico, per l’analisi dei fatti e delle questioni che si sono verificate nel periodo nel quale la Carife ha tentato di andare avanti rispetto alle tematiche ereditate dalla gestioni pregresse». Non riuscendoci, ma senza colpa, perché il contesto dinamico muta velocemente, in peggio: «In uno scenario in cui tutte le banche italiane stanno perdendo soli, sarà facile trovare un partner per Carife? È una ‘Mission impossible’. D’altra parte nemmeno i commissari in due anni sono riusciti a trovare l’araba fenice dell’investitore istituzionale o partner industriale. 

Nessuna banca italiana ha mostrato interesse verso le sorti della Carife».

Il tutto da abbinare alla gestione caotica italiana della crisi bancarie e su questo il difensore calca la mano: «A Carife si impone di sistemare gli Npl (i crediti deteriorati, ndr) in poco tempo, mentre la stessa Bce ad altri istituti chiede di farlo in sette anni». Ed è solo dopo quattro anni, di cui due sotto commissariamento di Bankitalia che si arriva al crac, dettato per legge: «C’è problema di sistema, sono adeguate le normative che il sistema ha approntato per gestire le crisi bancarie? È ammissibile che in questi anni abbia dato tre tipi di risposte? Paga lo Stato come per Mps; si fa una liquidazione con fondo creato ad hoc costati ai cittadini 6,8 miliardi  come per le banche venete; o la risoluzione per Carife e le altre tre banche del territorio, l’azzeramento. Tre modi diversi per sette banche». Qualcos’altro allora c’è, e tra queste il sistema di vigilanza che «non ha funzionato», se anche il governatore di Bankitalia alla commissione ‘Casini’ si è spinto nell’ammettere che, riporta Mazzanti, «siamo stati un po’ lenti».

Prima della difesa Lenzi era toccata a quella di Daniele Forin (avvocato Carmine Fasano), ex direttore generale della Cassa dir Risparmio di Ferrara, che rivolta alla pubblica accusa (in aula solo la pm Barbara Cavallo) ha parlato di «ricerca ostinata e quasi labirintica di ipotesi delittuose a carico di Forin». Il dg si mosse «per un progetto di rilancio della banca e di difesa della ferraresità» e nessuna delle sue condotte ritenute illecite dalla procura «erano previste da obblighi di legge». Tanto meno obbligatori erano i contenuti delle missive di Banca d’Italia: «Si tratta sempre di raccomandazioni, suggerimenti, opinioni e alla fine di inviti. Non c’è alcun carattere cogente, nessuna prescrizione. E sono «comunicazioni riservate» e pertanto non andavano inserite nel prospetto informativo sull’aumento di capitale, come invece suggerisce la procura.

In apertura di udienza l’avvocato Giovanni Ponti ha parlato in difesa di Michele Masini, revisore della Deloitte & Touche, accusato di aver preso parte al falso in prospetto certificando in qualche modo, attribuendogli un carattere di «non irragionevolezza», le previsioni contenute nel prospetto stesso. Per la difesa, Masini «è un po’ un corpo estraneo a tutto il resto del processo», la cui attività «è rilevata solo dal consulente tecnico del pm, non c’è altro, non un testimone, non un documento» e verso il quale i pm hanno esteso «rilievi che il consulente non ha espresso nei suoi confronti», senza che questi avesse alcun ruolo di garanzia previsto dalla legge.

Si torna in aula il 4 febbraio per formalizzare il rinvio all’udienza finale del successivo lunedì 11 per eventuali repliche delle parti e, soprattutto, per la sentenza.

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