Spal
23 Novembre 2018
Intervista a Dell'Omodarme ex gloria biancozzurra degli anni Sessanta: “Mazza personaggio fantastico, definimmo il contratto solo con una stretta di mano”

Dalla Juve alla Spal, i ricordi di ‘Re Carlo’ il dribblomane

di Redazione | 10 min

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(foto dall’archivio privato di Carlo Dell’Omodarme)

di Arnaldo Ninfali

Chissà qual è l’origine del suo cognome: Dell’Omodarme. Richiama ad atmosfere ariostesche di cavalieri in arme che guerreggiano al seguito di “re Carlo imperator romano”. Eppure lui, il nostro Carlo, re lo è stato davvero, sia quando esaltava le folle col pallone tra i piedi, sia quando regnava tra le figurine Panini come uno dei pezzi più ambiti e ricercati.

Dotato di eccellente tecnica, sapeva fintare come pochi e, quando prendeva il volo verso l’area avversaria, chi lo marcava restava lì a chiedersi cosa mai gli fosse accaduto. Alcuni lo ritenevano dribblomane, ma lui gioiva quando mandava in rete un compagno. Giocò cinque anni nella Spal e tre nella Juventus, che lo aveva cresciuto e fatto debuttare nella massima serie un giorno in cui Boniperti era infortunato. Una volta giocò contro il Santos di Pelè e ancora oggi ricorda l’emozione provata a trovarsi di fronte campioni di quel calibro. Nel maggio del 1960 segnò, con la maglia del Como, cinque gol al Cagliari e il fatto deve aver impressionato Paolo Mazza che, l’anno successivo, lo portò a Ferrara.

Oggi accetta di rispondere alle nostre domande sulla sua splendida carriera di militante nelle due storiche società che sabato prossimo, alle sei della sera, si affronteranno all’Allianz Stadium di Torino.

Il 15 settembre 1963 lei esordiva con la maglia della Juventus vincendo a Ferrara per 3 a 1, andando anche in rete. Non si sentì un po’ in colpa a dare un dispiacere ai suoi vecchi tifosi?
Non provai molto dispiacere perché, per un attaccante, segnare è sempre una soddisfazione. Ricordo che fece una doppietta Sivori e, verso la fine, segnai io. E poi fu una partita corretta e all’insegna della sportività.

Aveva trascorso a Ferrara le due stagioni precedenti (61/62-62/63). Come si era trovato nella nostra città, nei rapporti con la gente e con la dirigenza spallina?
Dirigenza? La dirigenza era Mazza: era lui che contava, e nessun altro. Era il capo. Con lui mi sono trovato benissimo. Era un uomo cordiale, democratico, col quale si poteva parlare di tutto, come si fa con un padre di famiglia. Non si è mai comportato male con nessuno, sempre di parola con tutti: un personaggio fantastico. Pensi che, quando nel 1966 tornai a Ferrara, definimmo il contratto solo con una stretta di mano. Poi mi infortunai e non giocai per molto tempo – nella stagione 1967-1968 giocai una sola partita. Ebbene, tenne fede al contratto fino all’ultimo centesimo. Ricordo che mi disse: “Guarda Carlo, ti ho promesso questo e questo ti do”. Pensi che uomo era. Con la gente poi, era un piacere dialogare: persone sempre molto cordiali e gentili.

Mazza l’aveva prelevata dal Como, allora in serie B, dove aveva giocato per tre stagioni. Cosa provò a tornare in serie A con una squadra di provincia, dopo che vi aveva esordito con la Juventus?
Avevo esordito in A con la Juve nel marzo del ’57, a Udine. Ricordo che perdemmo 3 a 0, ma avevamo di fronte un’Udinese che quell’anno arrivò quarta in campionato. Aveva in porta Cudicini e giocatori come Fontanesi, Lindskog, Frignani, Pantaleoni: una signora squadra, insomma. Io quel giorno sostituivo Boniperti, che era infortunato. Tornai in A con la Spal nel 1961 e ne fui contento perché Ferrara era conosciuta come un ambiente sano, dove si stava bene, in tranquillità e senza l’assillo di tante pretese. E la realtà si rivelò poi conforme alle aspettative.

Ma qualche volta ha giocato assieme a Boniperti?
No. La Juve mi prelevò dallo Spezia quando avevo sedici anni, crebbi nel settore giovanile e giocai nella nazionale giovanile, a Budapest, contro l’Ungheria. Poi, nella stagione 1957-1958 andai in prestito al Parma, in serie B, dove disputai un grande campionato. L’anno dopo tornai alla Juve, che mi prestò all’Alessandria, in cui militava ancora Rivera. Con l’Alessandria giocai solo la Coppa Italia, che allora si disputava a fine campionato. Poi venni convocato dal presidente Umberto Agnelli, il quale mi chiese se me la sentissi di restare in bianconero come riserva. Pensi che avevano comprato Charles, Sivori e Nicolè, e per me non c’era molto spazio. Io però gli risposi che volevo giocare e chiesi di essere ceduto. Così andai in prestito, con diritto di riscatto, al Como, il quale poi mi riscattò e, nel 1961, mi cedette alla Spal. Credo che Mazza fosse ancora sotto l’effetto di quei cinque gol che avevo rifilato al Cagliari nel maggio del ’60 e mi volle a tutti i costi. Ricordo che ero in ritiro con la nazionale militare e circolavano voci che mi davano alla Roma o alla Sampdoria. Poi, un giorno, apro il giornale e leggo: “Dell’Omodarme alla Spal”; e vestii di biancazzurro per cinque stagioni, anche se non consecutive.

Certo che a Mazza presentò delle credenziali di tutto rispetto: 24 gol in 92 partite di serie B. Come mai in seguito fu meno prolifico in fase realizzativa?
Deve sapere che io sono stato costretto a giocare ala. A me piaceva il ruolo di centravanti e nel Como ho giocato in quel ruolo fino a quando l’allenatore Lamanna, col quale litigai, proprio per questo motivo, mi disse che non ero adatto a fare la punta. Un giorno mi fa: “Guarda Carlo che tu non sei un centravanti. È vero che controlli bene il pallone, ma non sei alto: per quel ruolo ci vuole del fisico. Tu vai bene all’ala”. Io non ne volevo sapere, mi lamentai anche, ma alla fine fui ala per sempre. E mi guadagnai l’appellativo di dribblomane, ma avevo una caratteristica: facevo l’ala tornante, mi inventavo sempre qualcosa per scavalcare l’uomo e poi mi piaceva offrire l’assit che facesse segnare qualche mio compagno. Per me era una soddisfazione come se avessi segnato io.

Nella stagione ’60-’61 lei ha giocato anche con Gigi Meroni, vero?
Meroni era nei ragazzi. Mi pare avesse cinque anni meno di me, per cui quell’anno lì non abbiamo giocato assieme. Qualche anno dopo, quando entrambi eravamo a Torino, lui in granata e io in bianconero, ci incontravamo spesso e lui mi diceva che ero sempre stato il suo idoletto. Gli piaceva come giocavo e, da ragazzo, cercava di ispirarsi un po’ a me.

Nel giugno del 1963, invece, giocò in amichevole contro il Santos di Pelè.
Sì. Fu una grande partita, che vincemmo 5 a 3. Ricordo che fece tre gol Sivori, uno Gori e uno Menichelli. Per loro segnarono Pelè, Coutinho e Pepe. Con loro giocava anche Nenè, che la Juve ingaggiò per l’anno seguente. Nel 1970 poi avrebbe vinto lo scudetto col Cagliari.

E veniamo alle stagioni ’61-’62 e ’62-’63, cioè al suo primo ciclo spallino. Primo anno: salvezza al 14° posto; secondo: onorevole 8° posto. Lei disputò 53 partite e segnò 4 reti, tutte nel secondo anno. Secondo lei, cosa determinò quel salto di qualità, da una stagione all’altra?
Nel 1962 arrivammo anche in finale in Coppa Italia, perdendo col Napoli. Mah, non saprei. In estate arrivarono Bui, Bozzao e qualche altro, e forse la squadra si rinforzò, sia in difesa che in attacco. Fummo ottavi a pari merito con la Juventus.

Cosa ricorda di quel 30 settembre 1962 in cui, al Comunale, batteste il Napoli 4 a 2
Vede, con tutte le partite che ho giocato, è difficile ricordarsele tutte, ma quella mi rimase impressa. Ricordo che fino a un quarto d’ora dalla fine eravamo sotto 2 a 1 – per noi aveva segnato Bui -, poi Dante Micheli piazza due bolidi nel sette a un minuto di distanza l’uno dall’altro e, allo scadere, Adolfo Gori chiude la partita con un rasoterra alla sinistra del portiere. Giocammo una grande partita quel giorno. Del resto, quell’anno avevamo una bella squadra: avevamo il tedesco Waldner, Massei, Bui, Mencacci, tutti ragazzi di qualità. Mi ricordo che a Milano, con l’Inter, perdemmo 2 a 1 dopo che, alla fine del primo tempo, eravamo stati in vantaggio 1 a 0. Andò così perché metà del campo era ghiacciato e quella parte toccò a noi nel secondo tempo. Così eravamo sempre per terra, a differenza dei nerazzurri, che avevano cambiato i tacchetti con quelli più adatti a quel terreno. No, avevamo una grande squadra: ci salvammo con dieci partite d’anticipo.

Con l’Inter, nel ’61-’62, otteneste anche una bella vittoria in casa. Si ricorda?
Mi pare di sì. Ricordo che calciai una punizione dalla sinistra del nostro fronte d’attacco. Il pallone attraversò tutta l’area fino quasi a uscire a fondo campo, ma fu rispedito in mezzo da un colpo di nuca – di nuca, non di testa – di Massei, e Mencacci incornò nella rete di Buffon. Andammo in vantaggio dopo cinque minuti e tenemmo il risultato fino alla fine, contro la grande Inter di Herrera.

Le sue due ultime stagioni alla Spal non furono fortunate. Quali furono, secondo lei, le ragioni della doppia retrocessione del ’68 e del ’69?
Nell’estate del 1967 furono ceduti Capello, Bagnoli e Bosdaves, e questa fu già una perdita di qualità non indifferente. Poi Massei si ammalò di labirintite, giocò poche partite e, quando giocava, ogni tanto era preso da vertigini che lo costringevano a uscire per qualche minuto. Io giocai una sola partita, l’ultima, in casa contro la Juventus. Penso che questi fatti abbiano determinato la retrocessione del ‘68. Successivamente Mazza decise di vendere Pasetti, Bozzao e Reja. Massei si ritirò dal calcio giocato e, nonostante l’arrivo di giocatori di fama come Orlando, Pagni e Spagni, che giocarono pochissimo perché in cattive condizioni fisiche, nel ’69 si precipitò in serie C.

E della Spal di quest’anno cosa dice, le piace il suo gioco?
Dal vivo quest’anno non l’ho ancora vista ma, da quello che sento e leggo, mi sembra una squadra impostata bene, da un allenatore che sa il fatto suo. Penso che, se anche dal punto di vista societario c’è solidità economica, la serie A si può mantenere a lungo.

Ha sentito della quotazione di Lazzari sul mercato? Si parla di 20/25 milioni.
Sì. Ecco questi erano i colpi che piacevano a Mazza. Così lui faceva per mandare avanti la baracca. E poi sa cosa le dico? A Ferrara ci sono i tifosi, un grande pubblico con la Spal nel cuore, sempre pronto a seguire la squadra in massa, dovunque vada a giocare. Un ambiente così merita la serie A in eterno.

È tanto che non viene a Ferrara?
Sono venuto l’ultima volta in occasione della celebrazione del centenario. In quell’occasione ho rivisto Massei, Gori, Bagnoli e tanti amici che non ho mai dimenticato. Da allora mi allontano da casa al massimo fino alle Cinque Terre e passo le mie giornate nel mio campicello a lavorare la terra.

Ma ci sarà mai qualche squadra capace di ridimensionare l’attuale strapotere dei bianconeri?
Mah, certo che sono forti. Però le dico una cosa: ai miei tempi la squadra da battere era l’Inter, più che la Juve; e la settimana prima di incontrare i nerazzurri io vivevo l’attesa della partita con una tale concentrazione che mi sembrava che le mie forze triplicassero, e andavo in campo carico come una bomba. Ecco, con quella carica lì, potrebbe capitare anche il fatto straordinario che una piccola come la Spal possa dare un dispiacere alla Juve. Devo dire onestamente però che oggi la vedo dura.

Un’ultima domanda, Dell’Omodarme: è vero che un giorno, contro l’Inter, lei fece ammattire il grande Giacinto Facchetti?
È vero sì. Avevo una tecnica speciale con Facchetti. Lui era alto, con due gambe lunghe che con un passo faceva due metri, e così era anche veloce. Io, piccoletto com’ero, cosa facevo? Lo puntavo, lo superavo in dribbling e poi davo via subito la palla. Così, se tornava su di me – tenga presente che con tre passi mi era addosso -, la palla non c’era più. Anche con la Juventus ho fatto sempre delle grosse partite contro Facchetti. Con la Juve inoltre, siccome io facevo anche il tornante e Menichelli giocava di punta all’ala sinistra, spesso ci scambiavamo di posto. Così io mi ritrovavo di fronte Burgnich, il quale non si sganciava, come Giacinto, e mi aspettava nella sua area. Così io avevo più spazio e Menichelli impediva a Facchetti di fare quelle sue sgroppate verso la nostra area con cui spesso andava anche in rete.

Vuol mandare, in conclusione, un saluto ai tifosi spallini?
Con molto piacere, li saluto di cuore. Gli auguro mille soddisfazioni e li invito a considerare che l’importanza del calcio sta soprattutto nel fatto che unisce tra loro le persone. E poi, cosa vuole che le dica, per me è lo sport più bello del mondo.

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