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11 Luglio 2017
Mostra sul tema a Roma fino al 23 luglio

La Menorà. Culto, storia e mito

di Redazione | 4 min

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La Menorà è una lampada ad olio a sette bracci che nell’antichità veniva accesa all’interno del Tempio di Gerusalemme attraverso combustione ad olio consacrato.

Il progetto originale, la forma, le misure, i materiali e le altre specifiche tecniche si trovano per la prima volta nella Torah, nel libro dell’Esodo, in corrispondenza delle regole inerenti al tabernacolo. Le stesse regole adottate poi per il Santuario di Gerusalemme.

La Menorah è uno dei simboli più antichi della religione ebraica. Secondo alcune tradizioni la Menorah simboleggia il rovo ardente in altre rappresenta il sabato (al centro) e i sei giorni della creazione. Nel tabernacolo d’Israele, la menorah era d’oro e di disegno simile a quello delle comune lampade (o candelabri) d’uso domestico, era adorna di pomoli e fiori alternati e aveva un’asta centrale e tre bracci per parte, che sostenevano in tutto sette piccole lampade. Per queste lampade si usava solo olio puro di olive schiacciate.

Il destino della Menorah originale è tutt’ora oscuro: fatta interamente d’oro, d’un sol blocco, venne con molta probabilità portata a Roma quando Tito conquistò la terra d’Israele nel 70, come testimoniato da una raffigurazione sullo stesso Arco di Tito. Secondo alcune testimonianze non confermate, è rimasta a Roma fino al sacco di Roma del 455 finendo poi, dopo alcune vicissitudini, a Costantinopoli. Da qui in poi se ne perdono le tracce. La tradizione ebraica sostiene invece che la Memorah trafugata da Tito fosse una copia (come provato dalle incongruenze fra il bassorilievo raffigurato sull’arco di Tito e la forma conosciuta della Memorah biblica). Quella vera sarebbe stata nascosta in previsione della distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme.

Si è aperta, su questo tema, una mostra di notevole interesse per le implicazioni, artistiche culturali e religiose fino al 23 luglio a Roma dal titolo La Menorà. Culto, storia e mito a cura di Arnold Nesselrath, delegato per i dipartimenti vaticani, Alessandro Di Castro, direttore del Museo ebraico di Roma e Francesco Leone dell’Università di Chieti-Pescara. La mostra è stata magistralmente allestita da Roberto Pulitani in due sedi significative come il Braccio di Carlo Magno e l’importante Museo ebraico al piano inferiore dell’imponente sinagoga di Roma.

Il percorso espositivo interpreta lo scorrere dei secoli con il metaforico svolgersi del monumentale rotolo di un’immensa Torah.

La mostra si snoda lungo questo itinerario costituito dalla sinuosa parete purpurea che divide in due lo spazio del Braccio di Carlo Magno, accogliendo nelle teche e sui piedistalli le opere in mostra. Si susseguono, così – grazie a oggetti di ogni dimensione, ma tutti di grande pregnanza -, con l’ausilio dei pannelli didattici, le varie fasi della straordinaria storia della Menorà, dalla sua realizzazione fino ai nostri giorni. Composta da poco più di centotrenta opere fra le due sedi, la mostra al Braccio di Carlo Magno si apre con una serie di reperti che provengono dal Medio Oriente, a cominciare dal rilievo con la Menorà di una sinagoga egiziana del Cairo, databile al III secolo e.v., quando il candelabro entrò a far parte del corredo decorativo dei luoghi di culto ebraico. Particolarmente importanti sono poi gli splendidi vetri dorati che mostrano tanto il Tempio, quanto la Menorà.

Quello raffigurante la Memorà, di collezione vaticana, è esposto presso il Museo ebraico, in una sorta di scambio simbiotico. Ѐ interessante notare come l’arca con le ante aperte che mostrano la Torah sia affiancata da due leoni araldici di Giuda i quali, certamente, alludono al modello biblico dell’Arca dell’alleanza con cherubini. Entrambi gli oggetti provengono da cimiteri e catacombe romane a dimostrazione di una presenza ebraica sul Tevere che ha superato i duemila anni, come testimonia, fra l’altro, un frammento di mattone proveniente dalla catacomba ebraica di Monteverde. Tuttavia, la diffusione dell’immagine della Menorà non si limita soltanto a manufatti di cultura ebraica, ma compare, sia pure con funzione documentaria, in importanti opere cristiane come la splendida Bibbia di San Paolo fuori le Mura, dove all’Arca dell’alleanza si affianca la Memorà: per non parlare, poi, del celeberrimo affresco di Raffaello, con la Cacciata di Eliodoro, cui Nesselrath dedica una veloce riflessione relativa alle fonti archeologiche del Sanzio. Infatti, ogni qualvolta ci si debba misurare con il tema della rappresentazione del Tempio, come nel caso del bel quadro di Andrea Sacchi (esposto al Museo ebraico) con L’annuncio della nascita di Giovanni Battista a suo padre Zaccaria, compare immancabile il candelabro a sette bracci simbolo universale della cultura ebraica.

L’elenco delle opere, come ovvio, può moltiplicarsi, a iniziare da quello che forse è il cippo superstite della fontana che papa Paolo V Borghese volle per portare l’acqua all’interno del ghetto, per passare poi alla bella opera secentesca in argento lavorata a sbalzo da Sebastiano Gamberucci (“corona” e “rimonin”, ossia i melograni) per ornare i rotoli della Torah, pure conservati al Museo dell’ebraismo, fino a opere più contemporanee. Concludono la mostra, infatti, quadri come lo struggente olio che Antonietta Raphael (protagonista della scuola romana di via Cavour, insieme al marito Mario Mafai, a Gino Bianchini detto Scipione, a Mazzacurati e a un giovane Capogrossi) dedica a sua madre (“mamma Kaja”, come Antonietta la chiamava) che benedice le candele e il grande Ben Shahn che offre un’interpretazione originale della Menorah (questo il titolo), solida come un diamante, ma leggera e trasparente come un cristallo.

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