Cronaca
22 Aprile 2014
Fabio Anselmo seguirà anche la famiglia Magherini. "La morte di Federico ha fatto scuola"

L’avvocato di chi è stato ucciso due volte

di Daniele Oppo | 6 min

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Fabio AnselmoQuando una famiglia perde in modo poco chiaro un proprio caro affidato alle forze dell’ordine e vede come l’identità della vittima subisce un processo di degradazione, un “linciaggio della sua biografia” per usare la parole di Luigi Manconi, quando sembra che non sarà mai possibile arrivare a un processo per stabilire verità e giustizia, allora subentra lui. È successo con Federico Aldrovandi come con Stefano Cucchi, con Giuseppe Uva come con Michele Ferrulli.

E ora sarà ancora lui, Fabio Anselmo, avvocato ferrarese che seguì il caso Aldrovandi, a rappresentare la famiglia di Riccardo Magherini, l’ex calciatore morto il 3 marzo a Borgo San Frediano (in Toscana) dopo essere stato bloccato dai carabinieri in seguito a una crisi di panico, secondo la procura provocata dall’assunzione di cocaina. Secondo alcune testimonianze, due dei quattro carabinieri intervenuti avrebbero dato dei calci a Magherini mentre era a terra, ammanettato a faccia in giù, con le braccia dietro la schiena e a torso nudo.

Avvocato Anselmo come mai i famigliari di Magherini si sono rivolti proprio a lei, dalla Toscana a Ferrara?
Sono rimasti colpiti dall’intervista di Patrizia Moretti nel programma di Fabio Fazio, sono risaliti a lei, incontrandola il 14 aprile, e poi a me. Mi hanno raggiunto a Perugia dove seguo il caso Bianzino  e poi sono venuti qui a Ferrara.

Lei ha seguito i casi Aldrovandi, Cuccchi, Uva, Ferrulli e ora Magherini: per quale motivo tutte queste famiglie si rivolgono a lei?
Probabilmente perché abbiamo acquisito una esperienza che ci consente di affrontare problematiche relative a indagini e processi di questo genere con maggiore agilità. Gli schemi di depistaggio e difesa sono più o meno sempre uguali, i comportamenti istituzionali anche e noi abbiamo imparato a conoscerli. Ma probabilmente scelgono me per un fattore legato alla ribellione e alla mistificazione giudiziaria che passa attraverso il processo alla vittima anziché agli imputati.

C’è un filo conduttore che lega i casi che segue?
Quello di Magherini è un caso del tutto simile al filone Aldrovandi, Ferrulli e Rasman ad esempio.C’è un arresto o presunto tale posto in essere da più agenti, in questo caso carabinieri, con modalità violente e con compressione a terra in posizione prona che si protrae molto probabilmente oltre i limiti del lecito. Questo è una caso particolarmente inquietante, stiamo esaminando la sequenza filmata inedita che è davvero inquietante. Ma in generale il filo conduttore è il mancato rispetto dei diritti civili e umani fondamentali. Ho segnalato il caso al Senato e anche ad Amnesty International, nessuno lo fa ma io sì, è una cosa importante.

Parlando dei casi che le è capitato di seguire, si trattava di episodi isolati?
No, non sono casi isolati e non lo dico io, ma gli organismi di controllo pubblico europeo e internazionale. Esiste una mentalità e una cultura che fa sì che i protagonisti – che sono sempre più numerosi – di queste vicende non vengano lasciati soli davanti alle loro responsabilità, ma godono di una solidarietà ferma, forte e vibrante da parte di istituzioni e sindacati. Un esempio? Lo scorso febbraio il sindaco di polizia Sap ha chiesto la revisione del processo Aldrovandi e ha invitato a Ferrara i quattro agenti condannati per il loro congresso.

Si potrebbe parlare di ‘spirito di corpo’ per citare l’esempio delle coperture della scuola Diaz?
Il problema non è limitato solo alla forze dell’ordine, ma c’è ritrosia da parte di alcuni pubblici ministeri a mettere in discussione il loro rapporto con gli organismi con i quali collaborano quotidianamente. Dico solo che di dottor Proto (il Pm che seguì il caso Aldrovandi, ndr) ce ne sono molto pochi. In ogni procedimento di questo tipo trovo delle difficoltà: vengo indagato, ovviamente a vuoto, con i motivi più disparati, spesso veramente astrusi, come accaduto proprio nel caso Aldrovandi.

Se il filo conduttore, per quanto riguarda il mancato rispetto dei diritti civili e umani fondamentali, è quello che ha appena illustrato, cosa lega invece le famiglie di tutti questi casi?
Il dolore. Un dolore insopportabile, aggravato dal fatto che queste morti, paradossalmente, si verificano con modalità spesso tremende in contesti dai quali ci si aspetterebbe una tutela assoluta e una sicurezza assoluta.

Ma cosa la spinge allora a continuare a seguire casi simili?
La rabbia, perché non c’è cosa peggiore per una vittima del reato che ritrovarsi di fronte ad uno Stato che non solo ti nega il dolore ma addirittura tenta di distruggere la dignità della persona cara che ti è stata portata via.

Non sembra però che questo suo concetto trovi una totale condivisione nell’opinione pubblica. Si leggono continuamente, anche su Estense.com, commenti di chi chiede di non parlare più del caso Aldrovandi.
È invece importante parlarne, bisogna tenere accesa la fiamma. E il fatto che molti, e tra questi purtroppo anche sindacalisti di polizia, non ritengano ancora chiuso il caso ne è la conferma.

La si accusa però di tenere accesa quella fiamma anche attraverso la ‘mediatizzazione’ di questi processi.
Sarei un ipocrita a dire il contrario. Senza processo mediatico spesso non si fa il processo giudiziario o, nella migliore delle ipotesi, lo si fa molto male. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che uno dei principali parametri di valutazione della effettività della tutela giudiziaria dei diritti umani è proprio la pubblicità dei processi che si celebrano quando vengono violati i diritti umani.

Ma non è anche rischioso?
Certo, perché il processo mediatico ha regole tutte sue, però influisce sul processo giudiziario, favorendo il diritto di critica anche quando ha ad oggetto l’esercizio dell’azione giurisdizionale. L’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani ne riconosce anche il carattere preventivo sul possibile verificarsi di abusi. Il processo Aldrovandi non sarebbe finito così senza processo mediatico.

A tal proposito, qual è l’importanza del processo Aldrovandi?
Ai primi segnali di depistaggio, negazione e di mancanza di rispetto della vittima i familiari perdono ogni ritrosia rispetto al fatto di affrontare un processo mediatico: il caso Aldrovandi ha fatto scuola. È stato un caso fondamentale perché Federico era un ragazzo di 18 anni, incensurato, di buona famiglia che ha perso la vita per colpa di 4 agenti non durante una manifestazione di piazza o durante disordini ma in una tranquilla e silenziosa via di Ferrara in modo assolutamente incomprensibile ed inaccettabile. Ha messo l’opinione pubblica di fronte ad un problema: l’uso della violenza eccessiva e spietata in un contesto nel quale la violenza non avrebbe mai dovuto trovare albergo. Federico è diventato un simbolo determinato dal sacrificio di una giovanissima vita che ha conquistato le coscienze di tutti e ha posto l’attenzione, più che in ogni altra vicenda, sull’esigenza del rispetto dei diritti umani e dell’integrità della persona e questo per lo stridente contrasto tra le modalità violente con le quali si è cagionata la sua morte e la freschezza e la genuinità della sua giovane vita.

Senza il caso Aldrovandi avremmo oggi i casi Cucchi, Uva, Ferrulli e gli altri?
Credo di no. Ad esempio Ilaria Cucchi è corsa a cercare i riferimenti di Parizia Moretti e dei suoi avvocati dopo averla vista e dopo di lei gli altri l’hanno seguita in una strada ormai tracciata.

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