di Daniele Oppo
Si è svolto a Palazzo Bonaccossi il primo dei tre incontri promossi da Udi e Cgil appartenenti al ciclo “Cosa bolle in pentola” e inserito all’interno del Festival dei diritti. Presenti anche l’assessore Marescotti e il presidente della Provincia Zappaterra.
Ospite d’onore è stata Chiara Saraceno, già docente di Sociologia della Famiglia nell’Università di Torino e oggi professore di ricerca presso il Centro per la ricerca sociale di Berlino.
Incontro caratterizzato, come saranno anche i prossimi due, da una lettura “di genere” della crisi, ovvero una lettura della crisi economico-finanziaria dal punto di vista femminile.
Ad aprire il dibattito è stata Vera Perri che ha spiegato lo scopo dell’evento: “proporre temi ai partiti e alle istituzioni e vedere che risposte intendono darci”. Temi, tre come gli incontri, elaborati da 20 donne e anticipati in un piccolo video introduttivo (diretto da Alice Previati): crisi, riforme e violenza sulle donne.
A seguire ha preso la parola Angela Alvisi della Cgil che, nella sua lettura della crisi, ha individuato due punti focali che ritorneranno anche nelle parole di Chiara Saraceno: l’eccessivo familismo del nostro sistema di welfare e il misurare lo stato dell’economia solo attraverso la lente del Pil “alla quale sfuggono molti aspetti, come le risorse naturali, le strutture comunitarie, familiari e sociali, le cure parentali non retribuite, le cure agli anziani e l’economia solidale”.
Il numero tre ritorna anche nei punti con i quali la Saraceno cerca di inquadrare e leggere la crisi. Un sistema imprenditoriale e sociale “arretrato, incapace di innovare e fare ricerca” con anche la complicità del sindacato; un welfare state iniquo in cui buona parte della spesa sociale è destinata alle pensioni in un sistema che non solo non è più in grado di contenere la povertà dei vecchi ma che genera anche povertà nei più giovani; infine un eccessivo affidamento sulla solidarietà familiare.
In questo contesto “le donne sono sovrarappresentate e la povertà degli anziani è fortemente femminilizzata”. Inoltre, un sistema sociale che si basa troppo sulla solidarietà familiare genera “lavoro non pagato delle donne con responsabilità familiari che è dato per scontato ma che si sente quando non c’è”. Non solo, tale lavoro “produce ricchezza” ma anche la paradossale “dipendenza economica delle donne dalle persone dipendenti dal loro lavoro”. In sostanza, una donna che fa la casalinga e accudisce la famiglia in tutti i suoi aspetti ,svolge un lavoro prezioso ma in modo gratuito, il che la rende dipendente economicamente dal compagno o dal parente accudito. D’altronde “il Pil cala quando un uomo sposa la sua domestica”, dato che quel rapporto di lavoro e la relativa retribuzione si trasformano in un rapporto familiare.
Oltre il danno, la beffa. Un sistema così pesantemente poggiato sulla famiglia e sul lavoro delle donne come quello italiano non solo non è stato in grado di provvedere all’attuazione di politiche familiari di sostegno ma “ha trasformato i servizi di tipo collettivo in beni di lusso che se ci sono i soldi si fanno, altrimenti no, inferendo un doppio danno alle donne” che, percependo redditi mediamente più modesti e avendo difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, sono sia fra i soggetti che più usufruiscono di tali servizi sia fra i soggetti che più traggono opportunità di lavoro da essi”.
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