Ostellato
13 Agosto 2012
Il caso Aldrovandi e la richiesta di introduzione del reato in Italia

Tortura, quella sconosciuta

di Marco Zavagli | 4 min

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Patrizia Moretti e Nando Mainardi

Rovereto. “Per Federico il reato per cui sono stati condannati i poliziotti è quello di omicidio colposo. Ma omicidio colposo non è. Non è stato come un incidente d’auto non voluto”. Tutto quello che è passato sopra suo figlio prima dell’attimo fatale non rientra in quei tre anni e mezzo che i giudici hanno comminato ai quattro agenti responsabili della sua morte. A parlare è Patrizia Moretti, chiamata dal Circolo XXV Aprile alla Festa di Liberazione in corso a Rovereto di Ostellato per parlare del reato di tortura.

Tortura è quella che secondo la gran parte degli ordinamenti giuridici dei paesi occidentali Federico Aldrovandi subì quel 25 settembre 2005. Tortura è quella che il diritto internazionale consiste in qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali ad una persona affidata in custodia. Tortura è quella sancita dalla Convenzione delle Nazioni Unite di New York nel 1984 e che l’Italia – pur ratificandola – non ha mai recepito con una legge di attuazione.

Daniela Fuschini e gli altri organizzatori della festa di Rifondazione comunista hanno voluto chiamare Patrizia Moretti perché il suo nome figura tra i primi firmatari della petizione nazionale che chiede l’istituzione anche in Italia di questo tipo di reato.

“È chiaro che se non c’è il reato, non c’è nemmeno una pena corrispondente”, spiega la madre di Federico. “E questo è anche uno dei motivi per cui, dopo la tragedia di Federico, la nostra battaglia deve continuare perché questo non accada mai più. Specialmente di fronte alle risposte che il governo ha dato di fronte alle continue sollecitazioni di organismi e associazioni internazionali, dall’Onu ad Amnesty: non c’è bisogno di promulgare una legge perché da noi la tortura non esiste. Noi affermiamo proprio il contrario. Si chiama abuso di potere. E lo abbiamo visto attuato contro i manifestanti di Genova, contro gli attivisti No Tav, contro Federico e molti altri”.

“C’è un problema italiano se siamo gli unici a pensare che non esista la tortura”, interviene Nando Mainardi, segretario regionale del Prc, anch’egli invitato al dibattito. “Siamo in attesa di una legge che ci impone l’Onu da più di vent’anni. Ma anche senza guardare oltre le Alpi, è la nostra stessa Costituzione che all’articolo 13 vieta la tortura. Se vogliamo, quindi, il ritardo del nostro paese dura da sessant’anni”. Esemplare, secondo Mainardi, è la recente sentenza del tribunale di Asti al processo che vedeva imputati cinque agenti di polizia penitenziaria per maltrattamenti inferti a due detenuti: “il reato è andato prescritto, ma nella sentenza il giudice ha scritto che i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come tortura. Ma non esistendo questa fattispecie nell’ordinamento, il tribunale non ha potuto perseguirlo”.

Ecco quindi che “i casi come quello di Federico diventano ancora più grandi, perché riguardano tutto paese”. Il segretario di Rifondazione allarga lo spettro della riflessione ai “luoghi sensibili per la tortura” come “le carceri: serve la possibilità di monitorare quello che succede al loro interno, ma finché ci sarà una situazione di sovraffollamento sarà difficile”. Un esempio? “La capienza degli istituti penitenziari è di 44mila unità e ci sono 66mila detenuti. Dobbiamo intervenire, possibilmente non con un altro indulto”.

“Le leggi sono uno strumento – ribatte Patrizia Moretti -, ma quello che deve cambiare è la cultura, perché la mentalità che prevede il sopruso e la violenza è una mentalità fascista”. La madre di Aldrovandi ricorda il giorno successivo alla morte di Federico. I giornali locali titolarono “volto sfigurato”. “Fu il questore di allora. Elio Graziano – ricostruisce Moretti – a chiamarci per chiederci se stavamo insinuando che la polizia potesse avere qualche colpa. E noi non ci avevamo nemmeno pensato. Credevamo fosse stato investito da un camion dopo averlo visto sul lettino dell’obitorio. Noi non insinuavamo; ma qualcuno in questura invece sapeva…. E lo dimostrarono i processi per i depistaggi e le coperture. Quello che è successo alla mia famiglia non è improvvisazione, ma uno schema consolidato: é sempre colpa della vittima, per questo ogni volta che dall’altra parte c’è una divisa il morto viene dipinto come il mostro di turno. Questa è la loro difesa. E spesso per l’opinione pubblica è più comodo pensarla così”.

“È un film già visto dai tempi di Piazza Fontana quello di dare la colpa a chi non può più rispondere”, aggiunge Mainardi, che rivendica il ruolo del proprio partito nel cercare di fare uscire la verità in casi come quello Aldrovandi “attraverso la controinformazione”. “Spesso però – è il suo rammarico – siamo soli in questa lotta, vi sono alcune forze politiche più grandi, e tra queste anche il Pd, che stanno dalla parte del più forte e di conseguenza assumono posizioni conformiste. Quando poi il più forte viene smascherato, allora diventano i primi a manifestare alle vittime tutta la solidarietà del mondo. Vale per Piazza Fontana, vale per Genova, vale per Federico. Ci vorrebbe il coraggio di opporsi al più forte. Ma non lo si può chiedere a chi sta dalla parte del potere perché fa parte di quel potere”.

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