Attualità
9 Gennaio 2023
Le voci di chi si occupa del Centro universitario di medicina di sesso e genere di Ferrara

Medicina di genere: passare dal paziente alla persona

di Redazione | 6 min

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Riprendiamo il focus sul Centro universitario di medicina di sesso e genere di Ferrara, sul quale intervengono, dopo la nostra intervista alla professoressa Tiziana Bellini (presidente del corso di Laurea di Medicina di Unife) anche Fulvia Signani, Rosa Maria Gaudio, Roberto Manfredini, Roberta Piva, Katia Varani, Donato Gemmani, Michele Rubini, Gloria Bonaccorsi, Barbara Bramanti e Valeria Rapaelli.

Per Fulvia Signani, psicologa, docente di Sociologia di genere e membro del Centro: “L’approccio di medicina di genere o meglio ‘la salute, diagnosi e cura basata sulle differenze di sesso genere’, conta oggi di sviluppi interpretativi interessanti: l’invito ad approfondire le nuove conoscenze non è solo riferito al mondo medico, ma a tutte le professioni della sanità, inoltre viene ormai riconosciuto che non ci si può limitare alle patologie, ma serve conoscere gli effetti del genere nella relazione professionista-della-salute e persona-che-necessita-di–assistenza-e-cura (il termine ‘paziente’ è ormai da abbandonare). È nella relazione tra persone che, se non alfabetizzati, si può incorrere nelle ‘trappole di genere’ (inglese ‘gender bias’)”.

La prof.ssa Rosa Maria Gaudio, medico legale e direttrice del Centro aggiunge che “è recente la consapevolezza confermata da studi pubblicati che anche il fenomeno della violenza di genere fa parte delle tematiche di quella che per brevità definiamo “ Medicina di genere”. Nello specifico l’interesse scientifico, clinico e legale di Gaudio “è concentrato sulla applicabilità di istruzioni operative e protocolli sia sanitari che in collaborazione con le forze dell’ordine al fine di individuare percorsi virtuosi e soprattutto utili alla mappatura del fenomeno e quindi ad eventuali misure di prevenzione. Tutto ciò senza trascurare, nell’insieme delle equipe di lavoro sul fenomeno, anche le problematiche presentate dagli autori (di solito maschi) dell’azione violenta”.

Per dare esempi pratici di queste applicazioni, rispondono Gaudio e Tiziana Bellini:

“Il nostro impegno è sia nella parte di studio e ricerca, che nella formazione, che nell’organizzazione di eventi pubblici”. Affermazioni a cui fanno seguito esempi proposti dai membri del Centro Universitario di Unife.

“Un campo di ricerca di solito sconosciuto – suggerisce Roberto Manfredini, professore ordinario di Medicina Interna -. L’organizzazione dei ritmi circadiani, quella specie di orologio biologico che tutti noi abbiamo, che regola l’alternanza sonno-veglia e che che garantisce la fisiologia dell’organismo, può essere ‘desincronizzata’, alterata da modificazioni del ritmo luce/buio (come nel lavoro a turni o a seguito del cambio dell’ora legale), con conseguenze sullo stato di salute, spesso più frequenti nel sesso femminile”.

“Il successo di terapie basate sull’ingegnerizzazione dei tessuti (che favorisce la riparazione di tessuti o organi) per la cura di traumi o patologie che interessano le ossa e le articolazioni – aggiunge la prof. Roberta Piva, biologa molecolare – dipende dallo sviluppo di ‘costrutti’ (modelli appropriati) ideati in laboratorio per essere impiantati nel sito del danno che tengano conto delle caratteristiche di ciascun individuo, e quindi prima di tutto della diversa anatomia tra uomo e donna”.

“Altro esempio lo troviamo nel fenomeno dell’abuso di farmaci oppioidi che rappresenta – interviene la prof.ssa Katia Varani, farmacologa – un’emergenza sanitaria a livello mondiale. Tale problematica è particolarmente evidente per le donne a causa del maggiore consumo di farmaci analgesici. Risulta fondamentale valutare le differenze di genere in relazione agli effetti tossici degli oppioidi e alla loro capacità di indurre tolleranza e dipendenza”.

Il prof. Donato Gemmati, genetista che si occupa di studi sulla genetica individuale nelle malattie complesse, evidenzia che “studiando la variabilità genetica di ogni persona siamo riusciti a comprendere perché la donna dopo un infarto del miocardio è a maggiore rischio di sviluppare uno scompenso cardiaco. Allo stesso modo stiamo studiando la differente prognosi nei due sessi per le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer o predire la differente prognosi o risposta nei due sessi ad un trattamento sia esso un farmaco o un vaccino come nel Covid-19 e investigando mediante lo studio del genoma della madre come cause epigenetiche e molecolari durante la gravidanza siano responsabili di disordini neurocomportamentali come l’autismo in modo differente nei due sessi dei bambini”.

“Poiché le malattie autoimmuni sistemiche colpiscono prevalentemente le donne – interviene il prof. Michele Rubini, genetista -, stiamo studiando il possibile ruolo delle gravidanze pregresse e della colonizzazione della madre da parte di cellule fetali”.

Viene poi la prof.ssa Gloria Bonaccorsi, ginecologa, che sta studiando un’applicazione clinica nella pratica dell’approccio sex/gender based con un programma per la refertazione clinica-densitometrica informatizzata che stima il rischio di frattura ossea in base a fattori basati sulle differenze di sesso e genere.

La prof. Barbara Bramanti, antropologa, interviene spiegando che la sua materia di studio, l’Antropologia Biologica, “approfondisce l’evoluzione umana e la biodiversità nelle popolazioni del passato”. Bramanti studiando con il suo gruppo di ricerca, in modo comparativo i resti scheletrici di uomini e donne, vittime italiane della peste del ‘600, ha rilevato che, “a differenza della maggior parte delle malattie infettive a carattere epidemico, non c’erano differenze nei due sessi: uomini e donne morivano soprattutto fra i 18 e i 34 anni e chi aveva uno stato di salute migliore aveva più probabilità di morire di peste che di altre cause, ma la peste colpiva di più i fragili in generale”.

E ricorda che la peste, scomparsa dall’Italia dal 1945, “resta comunque presente in forma endemica in molti continenti e rappresenta perciò una minaccia costante, sulla quale, non a caso anche i fondi di ricerca del Consiglio d’Europa investono attenzione”.

“Nell’applicazione assistenziale – interviene la ricercatrice Valeria Raparelli (medico internista), membro del Centro -, quando in ospedale viene ricoverato un paziente è possibile che la medesima malattia richieda un approccio diverso se si è uomini e donne. Ma oltre alla diversa biologia, aspetti psicosociali devono essere considerati perché condizionano in maniera rilevante lo stato di salute e la prognosi della malattia. Una cura personalizzata non può prescindere da un approccio multidimensionale alla cura delle persone”.

La dottoressa Raparelli fa parte del progetto internazionale GOINGFWD che identifica per patologie croniche (come le malattie del cuore), quali sono i fattori psicosocioculturali che in vari paesi europei e nordamericani condizionano la storia dei pazienti con queste malattie. “Identificare le persone più a rischio di sviluppare malattia o avere una malattia più severa – spiega – considerando i ruoli, le relazioni, l’identità e le differenze strutturali di una società rappresenta un passo in avanti per una cura sempre più appropriata e adeguata”.

“Infine – aggiunge Fulvia Signani – già solo nella dichiarazione dei sintomi o storia sanitaria pregressa, donne e uomini si comportano in modi diversi. Per consolidata tradizione l’educazione degli uomini dissuade a dimostrare fragilità, e a parlarne ad altri. Se in ambito sanitario questa “tendenza” non viene accompagnata da attenzione e disponibilità all’ascolto, resta così taciuta una parte di conoscenza dei sintomi, origine, manifestazioni, dettagli, spesso fondamentali per una diagnosi e cura appropriate”.

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