di Paola Peruffo*
Ogni anno il 25 novembre ci costringe a guardare in faccia una verità scomoda: la violenza contro le donne non è un’emergenza, ma una condizione purtroppo radicata. Non nasce all’improvviso; cresce nelle parole non dette, negli sguardi che svalutano, nelle carriere interrotte, nelle responsabilità di cura scaricate sempre sulle stesse spalle. È una violenza che spesso indossa abiti ordinari, e proprio per questo continua a prosperare, malgrado una maggiore attenzione mediatica e leggi che, finalmente, iniziano a essere più incisive. La direzione è giusta, ma la soluzione è ancora lontana. Uno degli ultimi femminicidi è stato compiuto da una persona già dotata di braccialetto di vigilanza, sottoposta a provvedimenti che avrebbero dovuto tutelare una donna che, invece, non ha avuto scampo. Una vittima in qualche modo annunciata.
Quindi? Accanto alle norme, occorre rafforzare i servizi essenziali di supporto per le donne che hanno bisogno di uscire da una situazione di reale pericolo.
Negli anni scorsi, in prossimità di questa ricorrenza, mi sono soffermata più volte sui numeri allarmanti che attanagliano le donne in Italia così come in molti altri Paesi. Per questo 25 novembre vorrei partire da una considerazione che mi ha colpita positivamente: la manifestazione spontanea delle donne pakistane a Portomaggiore, in risposta ad affermazioni totalmente prive di logica pronunciate da un loro connazionale durante un servizio televisivo. È un gesto che testimonia la forza dell’autodeterminazione, capace di respingere perfino i dogmi religiosi quando vengono utilizzati contro la libertà delle persone, e in particolare delle donne.
Queste donne non vanno lasciate sole. E non vanno abbandonate neppure tutte coloro che sentono qualcosa di distorto nel rapporto con un uomo, molto prima che la violenza si manifesti apertamente.
Negli ultimi anni si è parlato molto di educazione emotiva, rispetto, parità. Sono passi importanti, ma non bastano. La violenza non si combatte soltanto con la condanna morale: si combatte cambiando le condizioni che la rendono possibile. E qui sta il nodo. Serve una rivoluzione gentile, ma al tempo stesso radicale: riconoscere che la cura — delle relazioni, delle persone, delle comunità — è un atto politico.
Non mi stancherò mai di ribadire che la violenza di genere diminuisce quando aumenta la libertà concreta delle donne: libertà economica, libertà di scegliere le proprie compagnie, libertà di essere credute, ascoltate, rispettate. Libertà di non dover ringraziare per diritti che dovrebbero essere già garantiti.
In questa giornata, vorrei che smettessimo di pronunciare “mai più” come una formula rituale e iniziassimo a chiederci: quale parte posso assumermi, oggi, per cambiare le cose? È una domanda semplice, ma rivoluzionaria, perché ogni trasformazione collettiva comincia da una responsabilità individuale.
La violenza contro le donne non scomparirà grazie a una giornata simbolica. Ma può iniziare a perdere terreno se ogni persona, ogni istituzione, ogni organo di comunicazione sceglie di mettere la dignità femminile al centro. Non come eccezione o gesto di cortesia, ma come fondamento di una società più giusta.
*Fratelli d’Italia
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